Le aste sono disponibili solo online causa COVID-19 Avviso
Mostra
RICERCA: palizzi
  • Palizzi Giuseppe (Lanciano, CH 1812 - Passy 1888) Paesaggio olio su tela, cm 23,5x34 firmato in basso a destra: G. Palizzi
    Stima minima €1300
    Stima massima €2500
  • Balestrieri Lionello (Cetona SI, 1872 - 1958) Beethoven
    olio su tela, cm 87x187
    firmato, datato e iscritto in basso a destra: L. Balestrieri Paris 1900

    Provenienza: Coll. privata,Milano; Coll. privata, Roma



    Nato da un’umile coppia senese, Lionello Balestrieri fu costretto assai presto a lavorare come decoratore per potersi permettere gli studi di Belle Arti, prima a Roma poi a Napoli; qui fu dapprima seguito da Gioacchino Toma, poi in un secondo momento seguì con grande entusiasmo le novità introdotte nel Real Istituto sotto la direzione di Filippo
    Palizzi e Domenico Morelli, quest’ultimo poi maestro venerato dal Balestrieri per l’intera sua vita.
    Appena ventenne Lionello si trasferì a Parigi, attirato dal fascino e dalla fama della Ville Lumière come tanti altri suoi contemporanei. La vita nella soffitta di un palazzo popolare di Montmartre fu certamente dura e difficile, seppure
    allietata dalla presenza dell’amico Giuseppe Vannicola, poeta e violinista romano col quale il pittore divideva l’alloggio:fu costui il tipico bohémien, dedito ad una vita “maledetta” all’insegna degli eccessi e destinata ad una tragica e precoce
    fine circa venti anni dopo; il suo evidente carisma influenzò tuttavia fortemente il Balestrieri, che negli anni parigini produsse una folta serie di opere accomunate dal tema musicale, come La morte di Mimì, Chopin, Notturno, Manon;
    su tutte queste, tuttavia, si impose il Beethoven realizzato dopo molti ripensamenti nel 1899 ed esposto per la prima volta all’Universale di Parigi del 1900: premiato con la medaglia d’oro, fu nuovamente in mostra alla Biennale veneziana
    del 1901 e là acquistato dal Museo Revoltella di Trieste, ove tuttora si trova.
    In vero l’inatteso successo della grossa tela fu tale che si moltiplicarono rapidamente le richieste e le conseguenti realizzazioni di copie, tanto che lo stesso Lionello, versato come in pittura anche nella grafica, preferì dedicarsi ben presto ad incisioni, acqueforti ed acquetinte per velocizzare i processi di produzione ed aumentare i guadagni.
    Forse sarebbe preferibile addirittura ammettere che in definitiva la fama dell’opera fu anche troppa, e finì per oscurare quella del suo stesso autore, se questi poi, nonostante le successive produzioni impressionista (Lavandaie sulla Senna) e
    macchiaiola (Signora che ricama in giardino), verista (Mademoiselle Chiffon) e finanche futurista (Sensazioni musicali, Penetrazione, Materia e spirito), finì per essere ricordato solo e soltanto per il suo giovanile Beethoven. L’ opera proposta dunque è innanzitutto una versione successiva al celebratissimo originale, chiaramente; tuttavia il
    supporto in tela la retrodata rispetto ai numerosi multipli di minor valore, inoltre essa reca la firma di Balestrieri che è assente nella maggior parte delle copie (quelle apparse sul mercato, almeno) ed è di tutte queste più grande. Il soggetto
    è vagamente autobiografico, presentando in primo piano sulla sinistra lo stesso Balestrieri (il quale realizzò in vita numerosi autoritratti) intento ad ascoltare l’amico Vannicola che suona con l’accompagnamento d’un pianoforte la
    celebre Sonata Op. 47 “a Kreutzer” di Beethoven (il musicista tedesco è in realtà presente nell’opera come inquietante presenza fantasmatica mediante una riproduzione della sua maschera funeraria, appesa non a caso in alto e quasi al centro della composizione); gli altri personaggi, una somma di solitudini più che una vera compagnia, pure sembrano
    ascoltare la virtuosa esecuzione musicale, oppure soffrono l’alienazione causata dagli alcolici e dal consumo d’assenzio (particolarmente suggestiva è la figura femminile dallo sguardo perso nel vuoto che s’accompagna all’artista). Gli stessi
    vividi colori della tavolozza si fanno acidi (più qui che nell’originale, dove si preferirono evidentemente toni cupi che meglio rispecchiassero la fredda miseria della vita bohémienne), come filtrati dai fumi delle droghe, e danno all’interno
    l’aspetto di quei café parigini tanto cari a Toulouse Lautrec, oppure avvicinano l’opera ai celebri “bevitori d’assenzio” di Degas e Picasso.
    Stima minima €5000
    Stima massima €8000
  • Palizzi Filippo (Vasto, CH 1818 - Napoli 1899) Il riposo del pastore olio su tela cm 26x18,2 firmato in basso a destra: Fil. Palizzi
    Stima minima €600
    Stima massima €1500
  • Palizzi Filippo (Vasto, CH 1818 - Napoli 1899) Cane olio su cartone cm 23,5x29 firmato in basso a destra: Fil. Palizzi
    Stima minima €600
    Stima massima €1500
  • Palizzi Filippo (Vasto, CH 1818 - Napoli 1899) La mandria olio su tela, cm 40,5x51 firmato e datato in basso a destra: Filip. Palizzi 1882
    Stima minima €6500
    Stima massima €9500
  • Palizzi Giuseppe (Lanciano, CH 1812 - Passy 1888)
    Al pascolo
    olio su tela, cm 60x53
    firmato in basso a destra: Palizzi
    Provenienza: Coll privata, Roma
    Stima minima €4500
    Stima massima €7500
  • Palizzi Giuseppe (Vasto 1812 - Passy 1888) La predica interrotta olio su tela, cm 65x77,5 firmato in basso a sinistra: Palizzi
    Stima minima €16000
    Stima massima €24000
  • Palizzi Nicola (Vasto - CH 1820 - Napoli 1870) Paesaggio olio su tela, cm 36x54 firmato e datato in basso a sinistra: 1857 N. Palizzi Provenienza: NuovaBianchi d’Espinosa, Napoli; Coll. privata, Napoli
    Stima minima €13000
    Stima massima €15000
  • Volpe Vincenzo (Grottaminarda,AV 1855 - Napoli 1929)
    Ritratto di fanciulla
    olio su tela, cm 62,7x41,7
    firmato in basso a sinistra: V. Volpe

    Provenienza: Coll. privata, Palermo; Coll.privata, Napoli



    Si riconosce in questo Ritratto di fanciulla un magistero che oltrepassa i limiti accademici per librarsi nell’arte della scuola napoletana che, nella seconda metà dell’Ottocento, procedette sull’esempio e insegnamento di Domenico Morelli e di Filippo Palizzi maestro, il primo nel campo del disegno, della figura e della composizione cromatica, mentre il secondo inarrivabile artista dell’osservazione naturalistica e della concretezza pittorica. Volpe, ligio per sua natura agli insegnamenti di Morelli, di cui fu l’allievo e successore esemplare e, contemporaneamente, attento anche alle diverse elaborazioni realistiche della pittura napoletana, vi adattò volentieri il suo concetto dell’arte e si applicò a svolgerlo nella direzione voluta dal suo temperamento. A tal proposito Enrico Somaré, in occasione di una mostra
    di Volpe alla Galleria dell’Esame a Milano, sottolineò che: uno spirito di osservazione più assidua, meno distratta, un sentimento più calmo, una maniera più modesta, dovevano eliminare dalle sue migliori esecuzioni l’enfasi che dilatò
    talvolta la maniera morelliana, l’eccesso che accompagnò sovente l’espressione manciniana, per citare due esempi. L’arte di Vincenzo Volpe ebbe per suo metro la misura, per suo criterio l’ordine, per suo strumento il mestiere e lo studio. Di rado espansivo, quasi sempre contenuto e riservato, non amava le grassezze dei tubetti spremuti sulla tela, e cercava di ottenere i risultati più densi con pochissimo colore. Si ricollegava in ciò al suo grande maestro Morelli, che sapeva riuscire intenso con il minimo dei mezzi, e si ricollegava ancora a Toma, del quale amava le atmosfere grigie e la
    squisitezza dei rapporti tonali. Di entrambi, Vincenzo Volpe comprese il profondo sentimento, a entrambi si accostò, per spontaneo bisogno dello spirito. Educato all’arte nel clima napoletano ed essendo giunto, per trasporto sincero, alla comprensione sottile del linguaggio pittorico, rifuggì i contrasti chiassosi, i colori troppo vistosi. L’accordo umile e gentile dei mezzi toni lo affascinò sempre, perché essi rendevano meglio il sentimento delle persone e delle cose attraverso la sua pittura.
    Stima minima €7000
    Stima massima €13000
  • Morelli Domenico (Napoli 1823 - 1901)
    I profughi di Aquileia
    olio su tela, cm 45x118
    firmato in basso al centro: Morelli

    Provenienza: Coll. privata, Napoli


    L’aver conseguito un primo premio di pittura nemmeno ventenne (grazie all’opera Virgilio comanda a Dante di inginocchiarsi appena che conobbe l’angelo che guidava la navicella colle anime del Purgatorio), dopo un’iscrizione assai precoce al Real Istituto di Belle Arti, è già un esempio (uno fra tanti) sufficientemente esplicativo della vita geniale
    ch’ebbe Domenico Morelli, un nome ormai tanto affermato da risuonare ben oltre i salotti degli appassionati d’Arte.
    Il conseguente primo, breve pensionato romano permise com’era di consueto al giovane artista di copiare dal vero le molte antichità dell’Urbe, ma probabilmente ancora più importante fu per il Morelli la visione del ciclo pittorico del
    casino Massimo, realizzato com’è noto dal gruppo dei Nazareni, i quali divennero inconsapevolmente un insostituibile legame tra il pittore napoletano e l’arte tedesca che più volte l’avrebbe influenzato nel corso della sua carriera.
    Un secondo pensionato a Roma (dopo un concorso sul tema Goffredo e l’Angelo) fu invece impedito dall’atmosfera soffocante di censura imposta dal regime borbonico all’indomani degli eventi del 1848, e fu questa alla fine un coincidenza probabilmente felice, in quanto il Morelli si risolse allora di raggiungere segretamente Firenze, dove trovò
    Saverio Altamura e Pasquale Villari: fu quest’ultimo, allievo del letterato De Sanctis, il principale ispiratore di tutta la prima produzione artistica morelliana (ascrivibile agli anni di formazione tra 1845 e 1855) nonché consigliere di quella subito seguente che prese poi il nome di verismo storico, all’insegna cioè della obiettiva restituzione della verità dei fatti rappresentati (secondo il celeberrimo motto «rappresentar figure e cose, non viste, ma vere»): primo esempio di questa
    nuova poetica fu l’acclamatissima opera Gli iconoclasti.
    Un secondo punto di riferimento per l’attività del Morelli fu senza dubbio il grande Giuseppe Verdi, conosciuto a Napoli già nel 1845: da quest’amicizia nacque non solo una fitta corrispondenza ma anche una serie di dipinti legati al mondo del teatro, come I Vespri siciliani, nonché un faticoso Ritratto del compositore (alla cui elaborazione partecipò anche Filippo Palizzi) completato solo negli anni Settanta. In quello stesso decennio prese avvio del resto la fase orientalista della produzione morelliana, pesantemente filtrata dall’influenza dell’arte di Mariano Fortuny, durante la quale furono partoriti veri e propri capolavori quali il Bagno turco e Le tentazioni di S. Antonio, pervasi dalla raffinata sensualità tipica del pittore spagnolo e pertanto allora oggetti di aspre critiche, in quanto accostati all’arte “di moda”.
    Da sempre convinto avversario di un certo vetusto accademismo, soprattutto tra le mura delle scuole d’arte, Morelli s’impegnò fin dal 1868 (anno della nomina a titolare della cattedra di pittura) nella riforma del Real Istituto di Napoli in collaborazione con Filippo Palizzi, e sempre con quest’ultimo fu costretto poco più di dieci anni dopo a rassegnare le dimissioni per contrasti interni al collegio accademico (vi tornò comunque tempo dopo su richiesta del citato Villari,
    ministro della Pubblica Istruzione nel biennio 1891-1892); nel 1882 dunque il Morelli passò alla direzione del neonato Museo artistico industriale.
    Nonostante i numerosi e prestigiosi incarichi il nostro non si sottrasse mai all’attività pittorica, che anzi divenne allora una rilassante fuga dagli obblighi giornalieri. Gli ultimi decenni del Morelli furono dedicati quasi per intero allo sviluppo di tematiche religiose, soprattutto la vita di Cristo e la raffigurazione della Vergine, quest’ultima declinata secondo un’intonazione molto intimistica e familiare: ne è un esempio la Madonna della Scala d’oro dipinta per le nozze del Villari; un’ulteriore ispirazione venne poi dall’opera che già affascinava numerosi artisti coevi, Gli amori degli angeli di Thomas Moore: in vero la rappresentazione di soggetti angelici portò come conseguenza una trasformazione anche nello stile pittorico dell’artista, che attraverso l’uso dell’acquerello si fece sempre più evanescente e rarefatto.
    L’ultima grande opera di Morelli fu la partecipazione alle illustrazioni per la Bibbia di Amsterdam, compito cui fu chiamato insieme ad artisti del calibro di Michetti e Segantini (i tre avevano ottenuto i premi più importanti alla prima
    Internazionale di Venezia del 1895); la prima edizione della mastodontica opera fu pubblicata nel 1901, ma il nostro non fu in grado di riceverne una copia, spegnendosi prima per crepacuore.
    Con la scomparsa di Morelli terminò anche la curatela dell’importante collezione di Giovanni Vonwiller (suo antico amico e mecenate che aveva anche ricoperto un importante ruolo nella fondazione e nel sostentamento della Società
    Promotrice di Belle Arti) di cui l’artista guidò fin dall’inizio la costituzione, così che ne andarono in asta a Parigi tutte le opere, compresi capolavori morelliani unanimemente celebrati quali La barca della vita (Allegoria della vita umana, in collezione privata) e I profughi di Aquileia (ora alle Gallerie dell’Accademia di Napoli).
    Fu solo un caso dunque se in un museo finì l’opera acquistata da Vonwiller e non questa proposta, di fatto gemella della prima in ogni aspetto. Il soggetto fu descritto dallo stesso autore in una lettera indirizzata al Villari nel 1860, anno
    che si pone dunque come termine ante quem dell’esecuzione (almeno di quella originale, di fatto non distinguibile con certezza): gli abitanti di Aquileia, fuggiti dalla città ormai sotto il controllo di Attila, navigano su imbarcazioni
    di fortuna verso nuovi lidi (e difatti sono tutti protesi a cercar terra con lo sguardo), e presto attraccheranno sulle isole inabitate della laguna veneta; l’intento simbolico (ripreso del resto da un’opera dell’amico Giuseppe Verdi, l’Attila
    appunto) fu dunque quello di celebrare patriotticamente la fondazione della città di Venezia in opposizione al tiranno straniero, che facilmente poteva identificarsi negli anni di Morelli con l’Impero asburgico. La composizione riprendeva quella della già citata e coeva Allegoria della vita umana, nonché modelli stranieri tra cui subito viene alla mente La Zattera della Medusa di Géricault, certamente vista dall’autore in uno dei suoi viaggi per l’Europa. Adoperando una tavolozza povera di colori, per lo più grigi, tanto che cielo e mare sembrano farsi una cosa sola pervadendo l’atmosfera di una notazione fortemente malinconia (coerentemente al tema trattato), Morelli sostituisce al dipinto rifinito in ogni sua parte l’abbozzo, «estrinsecazione immediata della visione spirituale fissata con i mezzi più brevi nella materia durevole» (parole di Edoardo Dalbono), aprendo le porte ad un’arte nuova e moderna fino ad allora senza precedenti in Italia.
    Stima minima €6000
    Stima massima €13000
  • Mancini Francesco detto Lord (Napoli 1830 - 1905) Ritorno da Montevergine
    olio su tela, cm 84,5x145
    firmato, iscritto e datato in basso a destra: Francesco Mancini Napoli 1903

    Provenienza: Coll.eredi dell'artista

    L’avvicinarsi a Francesco Mancini implica sempre e innanzitutto avere a che fare col soprannome “Lord”, certo bizzarro per un artista veracemente partenopeo, conquistato presso gli amici a causa del modo di fare “all’Inglese” che il pittore sviluppò e raffinò nel corso dei suoi frequenti soggiorni a Londra. Centrali infatti nell’attività del Mancini furono il suo cosmopolitismo (“lo ritroverete da per tutto, meno che in casa sua”, scrisse Della Rocca) ed il suo amore per una vita pienamente vissuta negli ambienti altoborghesi delle capitali della Belle Époque; questa convivialità ed uno spirito assai socievole bastarono secondo Mattia Limoncelli a distinguere Francesco dal quasi contemporaneo Antonio Mancini, genio pittorico dall’animo tormentato e dalla vita infelice.
    Andando con ordine, Francesco Mancini si formò presso il Real Istituto di Belle Arti di Napoli a partire dal 1844, frequentando prima la Cattedra di Disegno e quindi quella di Paesaggio, allora tenuta da Gabriele Smargiassi: quest’ultimo fu il primo vero mentore del nostro artista ed egli se ne allontanò più di dieci anni dopo, quando prese a frequentare lo studio di Filippo Palizzi; a questo punto è ovvio nonché corretto immaginare che dal punto di vista dello stile e della composizione il Mancini abbandonasse il convenzionalismo accademico di Smargiassi (già comunque attento agli studi dal vero) per avvicinarsi alla rivoluzione che stravolse l’ambiente artistico partenopeo intorno alla metà del diciannovesimo secolo sotto la guida proprio del Palizzi e poi di Domenico Morelli. Con questi due artisti (e con Altamura, Tedesco, Vertunni e gli artisti calabresi) Francesco condivise comunque anche gli ideali libertari risorgimentali, tradotti in una produzione pittorica dalle tematiche filogaribaldine (di cui i primi esempi furono esposti già alla Prima Promotrice Nazionale di Firenze del 1861) che, sostituendosi alle precedenti composizioni storiche romantiche e medievaleggianti, venne poi perpetuata ben oltre il compimento dell’Unificazione; negli anni Settanta il medesimo impegno politico fu alla base di un nuovo mutamento tematico in favore di soggetti sociali e protoveristi, mentre l’autore assumeva la cattedra di professore onorario all’allora Accademia di Belle Arti napoletana.
    Mentre già esponeva praticamente ogni anno alle mostre della Società Promotrice di Belle Arti di Napoli (di cui fu socio fin dalla fondazione), gli anni Ottanta videro Mancini partecipare a quasi tutte le grandi Nazionali italiane, ma soprattutto egli impose la sua presenza all’estero, tra Parigi, Vienna, Monaco e, come si è accennato, Londra: i temi pittorici si arricchirono allora di scene riguardanti le attività tipiche dell’alta società locale, quali le battute di caccia o gli svariati eventi sportivi, e se questi particolari dipinti ebbero fortuna presso i collezionisti italiani e partenopei, interessati ad emulare l’eleganza d’Oltralpe e Oltremanica, il mercato straniero per converso acclamò e richiese avidamente folkloristiche composizioni sui costumi dell’Italia meridionale, quali i vari “Pellegrinaggi” ed il celebrato capolavoro “Il ritorno da Montevergine”, più volte replicato.



    Forse il soggetto di maggior successo collezionistico di Francesco “Lord” Mancini, il tema del ritorno dalla colorata e folkloristica processione a Montevergine (nei dintorno di Avellino) fu più volte replicato o declinato in versioni differenti, ed appunto la principessa Maria della Rocca scrive di averne visto “una cinquantina di schizzi nello studio di Mancini”; la stessa principessa del resto scrisse parole assai lusinghiere su questa particolare rappresentazione: “è una vera fotografia fatta al momento che ci passan dinanzi quei pittoreschi veicoli tirati dai loro focosi destrieri […] bisogna aver assistito a quello spettacolo per poterne apprezzare tutta la verità […] tutto è riprodotto con rara precisione”. Il carattere fotografico delle opere manciniane è stato più volte sottolineato, e risulta in questo caso quanto mai evidente, visto l’inusuale taglio angolare della visione che potrebbe anche collegare l’artista napoletano alle novità compositive della coeva pittura francese e cioè impressionista, certo almeno osservata dal partenopeo in occasione delle varie esposizioni parigine cui prese parte.
    La presenza dei carri nella scena consente inoltre all’autore di cimentarsi con uno dei suoi temi più cari, la rappresentazione cioè del cavallo (che tradisce l’influenza di Filippo Palizzi, rinomato per aver dato ai soggetti ferini pari dignità rappresentativa di quelli umani), indagato con rigorosa aderenza al vero e senza alcuna concessione fantasiosa in ogni sua posa ed atteggiamento, tanto in contesti più umili e popolari che nelle caccie o le corse dell’aristocrazia europea ed in particolare inglese.
    Stima minima €8000
    Stima massima €13000
  • Mancini Francesco detto Lord (Napoli 1830 - 1905)
    Paesaggio col Monte Sant'Angelo
    olio su tela, cm 99,5x60
    a tergo cartiglio Mostra Celebrativa del Bicentenario, Accademia di belle arti di Napoli,Sett./Ott. 1954

    Provenienza: Coll. eredi dell'artista
    Esposizioni: Napoli 1954
    Bibliografia: Accademia di belle arti di Napoli, Mostra Celebrativa del Bicentenario 1752-1952 , L'Arte tipografica Napoli 1954 pag. 43 tav. LXXIin b/n

    Francesco “Lord” Mancini poté con l’allontanamento da Gabriele Smargiassi (al quale comunque l’arte sua fu profondamente debitrice) e l’avvicinamento a Filippo Palizzi dedicarsi alla più autentica e propria pittura di paesaggio piuttosto che al vedutismo accademico ancora di composizione tardo-settecentesca. Su quest’adesione manciniana alle nuove poetiche del vero tutte tese alla rigorosa descrizione del dato naturale anche nelle sue asperità (così come veniva per la prima volta contemplata la rappresentazione del “brutto” nella figura umana) vale la pena riportare quasi per intero un felice giudizio di Mattia Limoncelli: “la rappresentazione della natura – solida e rupestre in certe zone montuose, specie quelle soprastanti a Positano ove la leggiadria leggendaria, mitica delle cose cessa per ergersi al cielo brulla e selvaggia, talvolta persino paurosa ed inaccessibile – trovò in lui riflessi di una fedeltà austera, intransigente, tale da far pensare alla solidità costruttiva di un Palizzi e di un Cammarano, onde allo spettatore vien fatto di sentirsi di fronte ad una prosa robusta tutta volta a ridarci la dura vicenda, la mirabile prosodia delle masse che si ergono al cielo per mostrarci con le loro incomparabili strutture […] quel carattere di immensità che assieme a quella del cielo e del mare par fatto per non farci dimenticare la trascurabile piccolezza della nostra statura”. È in questa chiusa di ispirazione potremmo dire quasi kantiana che Limoncelli racchiude il suo alto giudizio sull’arte di Mancini, reputando quest’ultimo in possesso della rara qualità di saper trasmettere col paesaggio stati d’animo, d’essere in grado di restituire il più intimo segreto della Natura, quel sentimento cioè che vive nei suoi più vari aspetti e da essi permea.
    Stima minima €6000
    Stima massima €8000
  • Palizzi Filippo (Vasto, CH 1818 - Napoli 1899) Cavalli in amore olio su tela cm 31x44,5 firmato in basso a sinistra: Fil. Palizzi
    Stima minima €14000
    Stima massima €22000
  • Palizzi Nicola (Vasto - CH 1820 -Napoli 1870) Mucche olio su carta rip su tavola cm 22x28 siglato in basso a destra: N. P.
    Stima minima €400
    Stima massima €800
  • Palizzi Giuseppe (Lanciano, CH 1812 - Passy, FR 1888 ) Pastorella con pecore olio su tela cm 65x54 firmato in basso a destra:G.Palizzi
    Stima minima €7000
    Stima massima €9000
<< ... < 6 7 8 9 10 > ... >> 

Pagina 10 di 13. Elementi totali 195