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RICERCA: palizzi
  • Mancini Francesco detto Lord (Napoli 1830 - 1905)
    Percorrendo il Miglio d'oro
    olio su tela, cm 99,5x169,5
    firmato e datato in basso a destra: F. Mancini 1892

    Non nuovo ai dipinti di grande formato (si ricordino varie realizzazioni sul tema del ritorno dal Santuario di Montevergine, di particolare successo fra i collezionisti locali ed internazionali dell’artista), Francesco “Lord” Mancini (il soprannome gli derivò dalla assidua frequentazione dei più altolocati ambienti londinesi) dotò molti di essi di un taglio compositivo particolarmente azzardato, obliquo e fortemente dinamico, quasi fotografico, aspetto questo più volte sottolineato dagli studiosi del pittore. Il senso di vivo movimento che le tele ci restituiscono era loro inoltre conferito dai soggetti equini, generalmente molteplici, di rado in sosta quanto più spesso al trotto o al vero e proprio galoppo.
    Un ventaglio vario delle possibili pose che cavalli ed asinelli potessero assumere, sintomo di un attento studio dal vero che venne al Mancini dall’importante lezione di Filippo Palizzi, è racchiuso nell’opera proposta, ove l’azione pare farsi più concitata muovendo lo sguardo da destra verso sinistra, culminando nel treno che a breve – lo sappiamo – supererà i tre diversi calessi che occupano il centro della composizione. Seguendo poi con gli occhi il medesimo percorso appena descritto, si potrebbe inoltre curiosamente scorgere quasi una evoluzione dei mezzi di trasporto utilizzati al tempo del Mancini, secondo una progressiva sofisticazione (ed “eleganza”, come si vedrà fra poco) non di rado corrispondente al diverso censo dei proprietari-passeggeri: dal più semplice ed “economico” asino sulla destra, infatti, si passa al carretto popolare trainato da cavalli ma assai affollato, fino al calesse a tre cavalli dal design più “à la page”, occupato da una famigliola chiaramente altoborghese; infine il tratto ferroviario sulla sinistra andrebbe dunque a costituirsi ancora una volta come culmine dell’intento compositivo dell’autore del dipinto, rappresentando la più aggiornata innovazione in tema di trasporti per il periodo (in realtà attiva a Napoli, si ricorda, fin dal 1839 per la doppia tratta verso e da Portici, fortemente voluta da Ferdinando II delle Due Sicilie).
    Stima minima €15000
    Stima massima €25000
  • Palizzi Giuseppe (Lanciano, CH 1812 - Passy 1888) Pastorella e buoi olio su tela, cm 56x74 firmato in basso a destra: G. Palizzi
    Stima minima €2500
    Stima massima €4500
  • Dalbono Edoardo (Napoli 1841 - 1915)
    Popolana napoletana
    olio su tavola, cm 40,5x20,5
    firmato in basso a destra: E. Dalbono
    a tergo cartiglio Galleria Mediterranea, Napoli

    Tradizionalmente collegato nell’immaginario comune a tutta una serie di vedute di Napoli e dintorni dall’atmosfera particolarmente onirica e trasognata, cui Edoardo Dalbono pervenne muovendosi tra gli insegnamenti del suo principale maestro, Nicola Palizzi, ed il recupero di una certe temperie della grande Scuola di Posillipo, in gioventù il nostro s’avvicinò in realtà all’Arte tramite una produzione molto folkloristica di costumi popolari locali, su spinta ed ispirazione del padre Carlo Tito Dalbono, dipendente pubblico ma anche poeta estemporaneo nonché autore proprio di una raccolta di tradizioni partenopee e campane.
    L’opera proposta dunque si pone probabilmente proprio all’inizio di questa prima produzione del Dalbono, tanto nel soggetto che nell’attenzione alla linea disegnativa e nel potente colorismo, aspetti questi ultimi che tradiscono la devozione del nostro anche ai dittami di Domenico Morelli.
    Su questo stesso filone popolare si collocheranno poi (va infine ricordato) capolavori dell’autore quali le sue “tarantelle” e le “canzoni sul mare”, opere di grande successo espositivo e collezionistico.
    Stima minima €2600
    Stima massima €3800
  • Rossano Federico (Napoli 1835-1912)
    I Campi Flegrei
    olio su tela, cm 34,5x87,5
    firmato in basso a destra: Rossano

    Provenienza: Gall. Pisani, Firenze; coll. privata,Torino; coll. privata, Napoli

    L’opera è di committenza di Luigi Pisani, probabilmente il più importante mercante d’arte in Italia verso la fine dell’Ottocento (la sua galleria in palazzo Lenzi a Firenze fu assai celebre fino alla vendita avvenuta nel 1914 presso i Pesaro di Milano), attento conoscitore ed esperto della pittura di macchia, occasionalmente rintracciabile in qualche scritto critico del tempo: in proposito risulta qui particolarmente significativa la comparsa del suo nome in alcuni carteggi che Adriano Cecioni intrattenne con Marco de Gregorio e proprio con Federico Rossano, autore della tela.
    I tre protagonisti appena succitati ci riportano nell’orizzonte della Scuola di Resina (avendone tutti fatto parte), quella breve (durò non più di un
    ventennio) ma significativa esperienza artistica che, in aperto e aspro contrasto con l’arte propugnata da Domenico Morelli e dal suo seguito,
    intendeva raccogliere l’essenza della lezione naturalista di Filippo Palizzi aggiornandone il linguaggio, esercitando cioè «un’arte indipendente
    puramente verista e realista, tendente alla manifestazione semplice del vero nelle sue svariate forme, senza orpelli e transazioni» (citando il manifesto della Scuole redatto da Raffaele Belliazzi).
    Federico Rossano fu tra i fondatori della Scuola nel 1858, quando si trasferì appunto presso l’amico Marco de Gregorio lasciando gli studi di pittura
    al Real Istituto di Belle Arti, studi per la cui “conquista” in realtà aveva strenuamente combattuto in passato, abbandonando la scuola d’architettura
    contro il volere della famiglia, che per tutta risposta lo relegò in una stato quasi da diseredato. Questa dura esperienza biografica va ricordata poiché finì per influenzare irrimediabilmente la psicologia ma anche e soprattutto l’arte del Rossano, il quale favorì sempre soggetti malinconici nonché colori terrei ed uggiosi (almeno fino al trasferimento parigino nel 1877, allorché
    la sua tavolozza parve ravvivarsi un po’).
    Al carattere inquieto e mesto ben corrispose fin dalle prime prove pittoriche il paesaggio dei campi flegrei, «quella distesa monotona di piani acquitrinosi, tappezzata di erbe palustri, costellata di ciuffi di cannicci, fra la ferrigna
    collina di Cuma, il Mar morto e Lucrino» (così ebbe a dire il Fossataro, allievo del nostro autore), ripreso dapprima ancora secondo i canoni della
    Scuola di Posillipo (destando l’interesse del caposcuola Giacinto Gigante), attraverso cioè un filtro intimista e vagamente sognante, poi nel pieno stile porticese come dimostra un gruppo di opere tutte risalenti alla fine degli anni Sessanta del secolo, tra le quali spiccano certi esemplari prestigiosi (uno è pubblicato dal succitato Fossataro, un altro è andato venduto da
    Sotheby’s pochi anni or sono) nonché la tela qui in esame.
    Stima minima €25000
    Stima massima €45000
  • Volpe Vincenzo (Grottaminarda, AV 1855 - Napoli 1929)
    Concertino
    olio su tela cm 93,5x77.5
    firmato, datato e iscritto in basso a destra: V. Volpe Napoli 1888

    Provenienza: Coll. E. Catalano Napoli

    Enrico Somaré ci pare sintetizzò negli anni ’40 con grande arguzia il percorso artistico di Vincenzo Volpe: «ebbe per suo metro la misura, per suo criterio l’ordine, per suo strumento il mestiere e lo studio».
    In un periodo infatti di grande fermento culturale, quello a cavallo fra i secoli diciannovesimo e ventesimo, tanto più a Napoli ove si scontravano la grande tradizione artistica ottocentesca ed i sentimenti filo-secessionisti delle nuove generazioni, Vincenzo Volpe seppe portare avanti una pittura meditata e composta, senza gli eccessi di tanti suoi contemporanei, nonché parsimoniosa, basata su di una esigua tavolozza cromatica in cui abbondarono i neutri bianco, nero, grigio («la chiave della sua sensibilità pittorica», scrisse Schettini). Il nostro inoltre garantì al Real Istituto di Belle Arti, di cui fu a lungo direttore, un transito senza eccessivi traumi attraverso questa tumultuosa fase, improntando i suoi insegnamenti a quelli ricevuti a sua volta da Domenico Morelli quando gli fu allievo a partire dal 1867, vinto il parere contrario della propria famiglia.
    Sebbene appunto di scuola morelliana, Volpe s’avvicinò già nelle sue prime prove artistiche al verismo aneddotico certamente più vicino alla poetica di Filippo Palizzi, e tal genere pittorico rimase il principale all’interno della sua produzione (con varie concessioni tuttavia la paesaggio), considerato anche il successo che esso tipicamente aveva al tempo presso gli amatori d’arte locali ed internazionali, in cerca di una piacevole pittura di affetti.
    L’opera proposta si colloca all’interno di questo filone, indagando più in particolare un momento più intimo di un uomo di chiesa, vero e proprio sottogenere di cui Volpe diede più prove (sin dal dipinto “Un prete”, esposto alla Universale parigina del 1878), fino a dedicarsi all’arte sacra vera e propria sul finire della propria carriera. La tavolozza è sì «limitata a una terra verde, a un rosso di Pozzuoli, a una terra bruciata, a un’ocra gialla» (Schettini), eppure il risultato è tutt’altro che scarno, e la luce domina tutta la scena. Il volto occhialuto e decrepito del monaco ricorda fortemente la vecchia protagonista di “Suor Colomba” e “Dottrina cristiana”, entrambi dipinti del 1884 (il primo fu esposto alla Promotrice napoletana di quello stesso anno mentre il secondo fu inviato alla Promotrice di Genova, ed apparve quest’ultimo anche a quella di Torino del 1885 ed a quella di Napoli del 1887, nonché è oggi di proprietà della Provincia).
    Stima minima €5000
    Stima massima €8000
  • Palizzi Filippo (Vasto, CH 1818 - Napoli 1899) Cane olio su carta rip. su cartone, cm 16x17 firmato in basso a sinistra: Palizzi
    Stima minima €800
    Stima massima €1200
  • Pratella Attilio (Lugo di Romagna, RA 1856 - Napoli 1949)
    Panni al sole
    olio su tavola, cm 16x31
    firmato in basso a destra: Pratella A.
    a tergo timbro Galleria V. Loria

    Bibliografia: Don Riccardo, Artecatalogo Vesuvio Editorialtipo , Roma 1973, vol. III pag. 210

    Emiliano d’origine, Attilio Pratella volle trasferirsi a Napoli rimanendo affascinato dai racconti che circolavano circa la radicale rivoluzione lì apportata nel mondo dell’Arte da Domenico Morelli e Filippo Palizzi, e vi riuscì grazie ad una borsa di studio dell’Accademia di Bologna ove andava formandosi. Sperimentando nel capoluogo partenopeo varie forme artistiche, quali la decorazione su ceramica e l’illustrazione, così da potervisi mantenere, il nostro non mancò di esporre ove possibile le proprie opere pittoriche, fissandosi inizialmente su di un paesaggismo infuso di colori vivaci ed atmosfere trasognate i cui canoni erano stati fissati in precedenza da Edoardo Dalbono.
    La svolta stilistica avvenne in Pratella con la visione e l’assorbimento della lezione della Scuola di Resina, in particolare di Rossano e soprattutto di De Nittis, da cui il nostro trasse la costante passione per l’esplorazione di ogni tono di grigio che tipicamente permeò gran parte della sua produzione. Quanto ai soggetti, le vedute di Pratella si focalizzarono ora sugli angoli di Napoli via via perduti nella dilagante urbanizzazione, ora sui luoghi ancora selvaggi della collina del Vomero, ove egli presto si stabilì.
    Tanto per stile che per soggetto, dunque, l’opera proposta appartiene a quello che forse può definirsi il periodo migliore della pittura del Pratella. Le lavandaie, ricorrenti allora nei suoi scorci, sono probabilmente alla foce del Sebeto, fiume caro all’autore per la realizzazione delle sue opere.
    Stima minima €3000
    Stima massima €5000
  • Santoro Rubens (Mongrassano, CS 1859 - Napoli 1942)
    Santa Maria de Olearia
    olio su tela, cm 62x45
    firmato in basso a destra: Rubens Santoro

    Di Rubens Santoro subito saltano alla mente i celeberrimi scorci di Venezia, ora indagati con rigorosa precisione ora velocemente ritratti con spirito vagamente impressionista, che molto piacquero al collezionismo internazionale ed al noto mercante francese Goupil, tanto che l’autore a lungo parve scomparire dalle varie esposizioni meridionali per curarsi solo di quelle nazionali dal più ampio respiro o di quelle propriamente estere.
    Eppure nel Sud Italia si concentrò l’intera formazione di Santoro, innanzitutto con la sua breve esperienza presso il Real Istituto di Belle Arti di Napoli, ove si iscrisse dopo aver ricevuti i primi rudimenti d’arte dal padre intagliatore; si dedicò appunto solo per poco agli studi accademici, ma tanto bastò a fissare certi punti di riferimento fondamentali per la propria ricerca: gli ultimi esiti della grande Scuola di Posillipo da un lato, e dall’altro la rivoluzione che ormai già avviata nel panorama partenopeo da Filippo Palizzi e Domenico Morelli, al quale il nostro si legò particolarmente. Si potrebbe invece affermare che la poetica palizziana venne a Santoro principalmente attraverso il filtro della Scuola di Resina che in quegli anni pienamente operava ed ai membri della quale è evidente un avvicinamento del nostro: una conferma in proposito ci è data anche dallo stretto rapporto (testimoniato da una corrispondenza epistolare) che unì poi Rubens a Mariano Fortuny i Marsal, celeberrimo pittore spagnolo dell’epoca che nel 1874 soggiornò proprio a Portici, dove i resinisti erano soliti riunirsi.
    Senza dubbio si devono al fortunismo (e dunque indirettamente alle poetiche della Repubblica di Portici) la smaterializzazione della pennellata di Santoro (in principio di fiamminga precisione) in taches di colore, l’adozione a tal proposito di nuove, sgargianti cromie, la sua proverbiale ricerca luministica. Tutti elementi, questi, più o meno rintracciabili nell’opera in asta, per la quale poi s’adatta benissimo quanto fu scritto in proposito del suo autore: «dove il sole è così forte da far male agli occhi», ed appunto la luce pare assurgere a protagonista di questo scorcio di strada della costiera amalfitana. Ad esser precisi, sollo sfondo s’intravede la struttura dell’Abbazia di Santa Maria de Olearia, sita sull’arteria che collega l’area di Capo d’Orso con Maiori e già oggetto dei paesaggi di vari contemporanei di Santoro (si ricordi un dipinto di Francesco ‘Lord’ Mancini passato in asta Vincent): la caratteristica collocazione della struttura abbaziale si ricollega all’intensa presenza in età medievale di culti monastici (orientali ed occidentali, antichi e riformati) nella zona, scelta per la sua tranquillità, mentre la sua concreta costruzione avvenne fra decimo ed undicesimo secolo dopo Cristo; la denominazione “de Olearia” venne probabilmente dagli ulivi, fonte principale di sostentamento dell’area, ma a lungo (e sicuramente al tempo di Santoro) fu anche in uso l’espressione “strada (o via) delle catacombe”, appunto dalla celebre cripta di cui erano ben noti i meravigliosi affreschi medievali.

    Stima minima €12000
    Stima massima €18000
  • Morelli Domenico (Napoli 1823 - 1901)
    Ritratto femminile
    olio su tela, cm 75x42
    firmato in basso a sinistra: D. Morelli
    a tergo timbro Raccolta Iappelli, Napoli

    L’importanza conquistata nel panorama artistico partenopeo e meridionale intorno alla metà del diciannovesimo secolo da Domenico Morelli (lui, che con Filippo Palizzi rivoluzionò letteralmente il modo in cui pittori e scultori percepivano e dunque rappresentavano la realtà; lui, considerato dagli altri ma finanche da se stesso come un metaforico sovrano alla cui influenza nessun artista del tempo potesse sottrarsi) gli valse come è ovvio molteplici e prestigiose committenze, per le quali non mancò una ricca serie di ritratti che potremmo dire attraversa così un po’ tutta la produzione dell’autore, conosciuta o no ch’essa sia: alle varie tele infatti conservate fra i musei (e non solo) di tutta Italia, i cui soggetti ritratti sono per lo più identificati con certezza (si ricordino a Napoli il Gaetano Filangieri e il Giacinto Gigante, o il celeberrimo Giuseppe Verdi di Piacenza), si affiancano molte altre sparse fra le più disparate collezioni private e dei cui protagonisti s’è persa ogni memoria (almeno non volendo gettarsi in ipotesi azzardate), così che se ne può solo apprezzare la straordinaria fattura. L’opera proposta si ascrive con ogni diritto a questo gruppo di dipinti del suo autore.
    Lo stile del dipinto si collega alla produzione che Morelli cominciò già intorno agli anni Sessanta del secolo ma che poi divenne predominante solo a partire dal decennio successivo, allorché l’artista andò maturando i propri interessi verso l’Oriente ma soprattutto assorbì pienamente la lezione dello spagnolo Mariano Fortuny y Marsal (il cui soggiorno in Campania, per la precisione nella zona di Portici, si rivelò poi fatale) in direzione di una ricerca pittorica segnata dalla luce e da ricercati contrasti cromatici; le pennellate intanto andarono via via scomponendosi (fino a rarefarsi nell’ultima fase morelliana, quella più “mistica”) in taches di colore già per definizione meno chiare della rigorosa linea disegnativa delle prime opere dell’autore, eppure di modernità mirabile e pressoché insuperata ai tempi, nonché d’assai efficace pathos. La tavolozza adottata per lo sfondo e certe forme appena accennate (quasi impercettibili in realtà) su di esso da singoli movimenti della mano dell’artista lascerebbero pensare ad un contesto naturale, magari un giardino, in cui la raffinata modella avrebbe preso posto per la posa col suo fare al contempo algido e trasognato, reggendo un corto rametto arricchito di poche foglie che potrebbe avvalorare la nostra ipotesi.
    Stima minima €8500
    Stima massima €12500
  • Ragione Raffaele (Napoli 1851 - 1925)
    Parc Monceau
    olio su cartone, cm 32x38,5
    firmato in basso a destra: R. Ragione

    Il senso di pace che generalmente traspare dalle opere di Raffaele Ragione cozza decisamente con l’animo ribelle che stando a testimonianze e fonti egli mostrò fin dalla più giovane età: un senso di inquietudine costante che lo condusse ad allontanarsi presto anche da coloro che gli facevano del bene, quali i maestri Stanislao Lista prima, Domenico Morelli e Filippo Palizzi poi, che subito intuirono il suo potenziale artistico, l’amico e suo principale mecenate Vincenzo D’Alicandro, la compagna Aurora e la figlia Ida.
    Questa esistenza vissuta per lo più ai margini di una società che egli non amava, la sua intrinseca solitudine, si rivelano fondamentali per comprendere appieno certe scelte che l’artista intraprese al suo arrivo a Parigi, al tempo capitale di tutta la cultura europea e centro nevralgico della Belle Époque (al cui fascino allora già avevano ceduto pittori del calibro di Carlo Brancaccio, Pietro Scoppetta, Ulisse Caputo): alla raffinata ed alquanto leziosa vita da boulevard Ragione preferì infatti la tranquilla quiete di Parc Monceau (che fa da sfondo ad una porzione ingentissima della produzione dell’artista), luogo d’espressione di una vitalità più semplice e proprio per questo forse più genuinamente autentica; il parco allora comunque ancora conservava l’impianto originario (oggi perduto), quello che ne faceva cioè un raffinato contenitore di bizzarrie architettoniche che rispondevano al gusto per l’esotico molto diffuso fra tardo diciottesimo e diciannovesimo secolo (erano presenti, ad esempio, una piramide non lontana da mulini a vento tipicamente olandesi e da rovine di fattezze medievali).
    Anche lo stile di Ragione risentì delle influenze parigine e più generalmente francesi (anzi può considerarsene indissolubilmente legato). A tal proposito è tutt’ora in corso una querelle circa quando l’artista entrò precisamente in contatto con le poetiche pittoriche d’Oltralpe, ma basti qui accettare l’ipotesi che egli dovette venirne a conoscenza prima del proprio definitivo trasferimento nella Ville Lumière agli inizi del Novecento: questo perché stilemi tipici dell’Impressionismo francese già si notano in opere precedenti a quell’evento. Dell’Impressionismo comunque il nostro prese non tanto l’analisi luministica quanto piuttosto la sperimentazione cromatica, indagata con vivo e multiforme interesse; inoltre l’episodio che di volta in volta anima il Parc Monceau nei dipinti di Ragione assume un valore emotivo e lirico che richiama, come è stato giustamente sottolineato, le madeleine proustiane più che i soggetti cari agli impressionisti, nel senso di un richiamo al proprio vissuto precedente che in questo caso torna tramite la pittura così a galla, tanto nell’animo del creatore che in quello di chi (ancora oggi) osserva la sua opera.
    Stima minima €3000
    Stima massima €5000
  • Palizzi Filippo (Vasto, CH 1818 - Napoli 1899) Ritorno dai campi olio su tela, cm 50x74 firmato in basso a sinistra: Palizzi Bibliografia: Napoli d'un tempo nelle vedute dell'Ottocento acura di Rosario Caputo, Gall. Vittoria Colonna Napoli 2007 pag. 50
    Stima minima €55000
    Stima massima €75000
  • Palizzi Giuseppe (Lanciano, CH 1812 - Passy 1888)
    Fanciulli al pascolo
    olio su tela, cm 65x99,5
    firmato in basso a destra: Palizzi

    Maggiore per età fra i pittori della fortunata famiglia Palizzi, Giuseppe fu con ogni probabilità anche quello che godette in vita di miglior fortuna, avendo saputo cogliere le molte occasioni offerte agli artisti del tempo dagli ambienti francesi e soprattutto di Parigi, ove il nostro come è noto si trasferì fra il 1844 e l’anno successivo, chiuso ogni rapporto con il mondo accademico napoletano (vuoi per ragioni strettamente estetiche, vuoi per altre legate invece alle sue simpatie politiche); dell’avventura di Giuseppe nelle terre d’Oltralpe oggi si ricorda principalmente la sua adesione alla Scuola di Barbizon (egli si stabilì rapidamente nei pressi della foresta di Fontainebleau, cara a quel sodalizio di pittori, e addirittura si costruì col tempo un riparo fra l’aspra e fitta vegetazione), che costituì una solida via d’accesso al dibattito artistico locali e di conseguenza ai migliori salotti intellettuali della zona: veloce fu insomma l’ascesa alle più prestigiose committenze (anche ufficiali) ed esposizioni (costante fu la partecipazione ai Salon e non mancò alle Universali). Grazie al fitto corpo di epistole scambiate con i fratelli, in particolar modo con Filippo, mai comunque si recise del tutto il legame con l’Italia e con Napoli (con anche occasionali ritorni), ed anzi Giuseppe può oggi considerarsi un fondamentale punto di riferimento per tutti gli artisti che nel corso dell’Ottocento compirono l’agognato viaggio verso la Francia.
    Questa appartenenza a due terre (si potrebbe dire quasi una doppia cittadinanza) ebbe le sue ovvie conseguenze sulla ricerca pittorica di Giuseppe Palizzi: innanzitutto egli s’avvicinò ai Barbisonniers percependone le sostanziali comunanze con la rivoluzione artistica che nel nome di una stretta rappresentazione del vero suo fratello Filippo già andava professando negli ambienti intellettuali partenopei, ma del gruppo di Fontainebleau assimilò la sintetica pennellata a taches di colore che anticipava gli esiti dell’Impressionismo ed al contempo si contrapponeva in qualche modo ai dettagliatissimi dipinti di Filippo stesso; in secondo luogo la pur suddetta pittura dal vero va sovente trasfigurandosi nell’arte di Giuseppe in atmosfere idilliache che gli vennero dai giovanili studi accademici sotto la guida di Pitloo e Smargiassi (all’insegna insomma delle poetiche della tarda Scuola di Posillipo), che dunque sembra egli non riuscì mai a superare del tutto. Ecco allora quella pittura d’affetti concretizzatasi nell’opera proposta, ove nessun soggetto, umano o ferino che sia, è cioè rappresentato senza un proprio “nucleo familiare”, dalla coppia di contadinelle (con ogni probabilità mamma e figlia) al piccolo gregge di pecore ed all’agnello in primo piano con le mucche retrostanti, che si leccano poi amorevolmente riprendendo un tema già esplorato dall’autore in più dipinti; finanche nel piccolo rivo i volatili stanno rigorosamente in gruppo. Fa da sfondo un paesaggio dal sapore antico e moderno insieme, ove una visione per piani via via meno definiti ed un certo gusto per il dettaglio trovano posto sulla tela tramite una pennellata assolutamente aggiornata alle più recenti ricerche pittoriche del tempo.
    Stima minima €13000
    Stima massima €18000
  • Esposito Gaetano (Salerno 1858 - Sala Consilina, SA 1911)
    Figura di donna
    olio su tela, cm 51,5x35 firmato in basso a sinistra: G. Esposito

    Bibliografia: Alfredo Schettini, La pittura napoletana dell'ottocento, Ed. E.D.A.R.T. Napoli 1967, vol. II, p. 397 a colori; illustrazione sul lato del cofanetto dell’opera “Enciclopedia della canzone napoletana”, Ettore De Mura, Ed. Il Torchio,Napoli 1968-1969

    Della breve attività pittorica di Gaetano Esposito (la cui vita fu tanto tormentata da condurlo al suicidio) ci rimangono per lo più vedute marine (poiché il tumulto dei flutti ben s’adattava a quello dell’animo suo), scene di genere tese fra verismo (rappresentando per lo più contadini delle zone natie dell’autore) ed un certo intimismo lirico, ed infine ritratti, genere quest’ultimo di cui il nostro fu abile maestro.
    Formatosi sotto gli insegnamenti di Filippo Palizzi e Domenico Morelli, fu più dal secondo di essi che Esposito assorbì la passione per lo studio del grande passato artistico partenopeo e più specificamente del Seicento napoletano, che finì per influenzare radicalmente lo stile e le scelte compositive dell’artista; questo interesse lo avvicinò inoltre ad alcuni suoi contemporanei che ne condividevano l’approccio, e fra questi va soprattutto ricordato Antonio Mancini, cui Esposito fu legato da profonda stima ed amicizia per tutta la sua (pur breve, come s’è detto) vita.
    Se l’opera proposta appartiene come è evidente al suddetto filone ritrattistico di cui Esposito fu illustre rappresentante, il suo aspetto più sintetico e quasi bozzettistico dà l’occasione di sottolineare un’altra caratteristica della produzione del suo autore, e cioè appunto l’aspetto del “non finito”: già Esposito infatti ci viene descritto dalle testimonianze quale assai intransigente verso i propri dipinti, di cui mai fu soddisfatto; a questo si aggiunse l’impossibilità di lavorare stabilmente in un proprio studio (non avendone uno fisso), con il risultato che l’artista lasciò effettivamente varie tele e tavole non completamente definite (per lo più negli atelier di chi occasionalmente l’ospitava, cioè Attilio Pratella e Giuseppe Casciaro, come racconta Alfredo Schettini). Non è da escludersi insomma che anche questo profilo femminile avesse un destino di completezza mai poi concretamente realizzatosi.
    Stima minima €4000
    Stima massima €7000
  • Palizzi Francesco Paolo (Vasto, CH 1825 - Napoli 1871)
    Natura morta
    olio su tela, cm 106,5x60,5
    firmato in basso a sinistra: Franz Paul Palizzi

    Provenienza: coll. privata, Parigi; coll. privata, Napoli


    Penultimo delle “nove muse” (noto soprannome con cui era definito insieme ai suoi fratelli, tutti più o meno versati nella arti) di Casa Palizzi, Francesco Paolo giunse a Napoli dalla nativa Vasto nel 1845 per iscriversi al Real Istituto di Belle Arti; qui fu dapprima allievo di Camillo Guerra con l’intenzione di diventare pittore di scene storiche,
    venendo dunque avviato dal proprio mentore a quel convenzionalismo accademico tipico dell’epoca, poi decise di seguire invece gli insegnamenti di Gennaro Guglielmi (artista in cui confluivano tanto la tradizione locale che le nuove spinte naturalistiche) orientandosi verso la natura morta. Sulla scia di questo nuovo interesse Francesco Paolo studiò attentamente i grandi maestri della pittura napoletana di genere del Seicento, come Recco e Ruoppolo, ma fu attirato soprattutto dalle composizioni più semplici, ridotte a pochi elementi, di un Luca Forte o del settecentesco Giacomo
    Nani, entrambi artisti memori della più ortodossa tradizione caravaggesca all’insegna del luminismo.
    Negli anni di formazione fu innegabile (come ovvia) tuttavia anche l’influenza dei più affermati fratelli maggiori di Francesco Paolo: Filippo prima, quindi (e soprattutto) Nicola, il quale trasmise al nostro quella pittura materica e corposa, a larghe pennellate strutturanti, che fu alla base dell’ormai riconosciuta (grazie specialmente agli studi di
    Michele Biancale e Raffaello Causa) innovazione che Francesco Paolo seppe apportare al genere tradizionale della natura morta; non mancò infine l’esempio di Giuseppe Palizzi, raggiunto a Parigi dal fratello minore nel 1857.
    L’immersione nel clima della Ville Lumière non poteva lasciare indenne la pittura di Francesco Paolo: la pennellata si fece più rapida, il greve chiaroscuro andò illuminandosi, i colori divennero più vivi e brillanti; questa trasformazione
    fu con ogni probabilità causata dallo studio delle opere del celebre Chardin nonché dal contatto col giovane Manet, il quale pure in quel periodo andava recuperando la tradizione della natura morta francese: dobbiamo immaginare per
    lo meno una visita all’importante mostra tenuta dal pittore francese presso la galleria Martinet nel 1865, se nelle opere del giovane Palizzi ora presso il Banco di Napoli o la stessa Accademia di Belle Arti si ritrova una resa sintetica del tutto simile a quella di Manet (nello sviluppo poi di temi tipici dell’artista francese, come quelli delle ostriche e delle peonie) o addirittura vere e proprie citazioni, come il virtuosistico coltello in bilico sul margine del tavolo a definire prospetticamente lo spazio della rappresentazione.
    Se il soggiorno parigino fu costellato da molteplici partecipazioni ai Salon locali, fino a culminare nella presenza all’Esposizione Universale del 1867, Francesco Paolo non dimenticò mai di inviare i suoi lavori alle Mostre della Società Promotrice di Belle Arti di Napoli, di cui era socio fin dalla fondazione nel 1862. Nella città partenopea l’artista tornò poi effettivamente e definitivamente dopo alcune peripezie nel 1870, allo scoppio della guerra franco-prussiana; a Napoli s’ammalò e morì prematuramente solo un anno dopo.
    Avendo riportato nella sua città d’adozione solo poche opere (in gran parte donate nel 1898 da Filippo Palizzi all’Accademia locale) prima dell’improvvisa ed inaspettata dipartita, molta della produzione di Francesco Paolo è perduta tra i salotti dei collezionisti francesi o comunque internazionali. Proprio per questo la tela proposta risulta tanto più preziosa, in quanto costituisce un insperato ed importante recupero di un autore asceso (secondo il parere ormai unanime degli studiosi, come detto) all’Olimpo degli innovatori napoletani dell’Ottocento. Ancora più, quest’opera può
    considerarsi a ragione una summa di più temi cari all’autore e riscontrabili perciò nei suoi quadri ora musealizzati: c’è la bella pentola di rame col crostaceo vermiglio, un’accoppiata quasi senza pari nella produzione dell’artista, ripresa solamente dal Paiuolo con gamberi, molto simile (la tela, creduta perduta, è stata identificata solo di recente in una
    collezione privata); c’è la cacciagione, visibile più volte nella collezione dell’Accademia di Belle Arti di Napoli ma qui declinata secondo la scelta inedita di due fagiani al posto delle più tradizionali pernici ed anatre, e ci sono infine i
    funghi (pure all’Accademia) con il coltello, quel succitato accento caratteristico di Palizzi ma ereditato dalla più grande pittura francese coeva.
    Stima minima €4500
    Stima massima €8500
  • Campriani Alceste (Terni, PG 1848 - Lucca 1933) Bimbi nel bosco
    olio su tela rip. su tela, cm 55x72
    firmato in basso a sinistra: Alceste Campriani

    Provenienza: Coll. privata, Napoli


    L’ esperienza artistica di Campriani ebbe inizio nel 1862, anno del suo arrivo a Napoli dopo l’esilio della sua famiglia dalla papalina Umbria a causa degli ideali libertari del padre. Nel già garibaldino capoluogo partenopeo il giovane
    Alceste, tendenzialmente non meno ribelle del suo genitore, si rivelò inadatto agli studi intellettuali tradizionali e fu perciò iscritto all’Istituto di Belle Arti, dove ebbe per compagni personaggi di spicco quali Gemito, D’Orsi, Mancini,
    De Nittis.
    Studente poco incline all’accademismo imperante dell’epoca, Campriani mostrò ben presto simpatie per il naturalismo palizziano, avvicinandosi all’allora nascente gruppo di Resina ma non legandovisi ufficialmente (sebbene un’opera quale
    Capodimonte del 1865 mostrasse inequivocabilmente già la sua propensione ad una rappresentazione luministica dello spazio), non prima almeno del termine degli studi ufficiali conseguito nel 1869 (e dopo anche un soggiorno fiorentino in cui l’artista entrò in contatto con i macchiaioli ed in particolare con Signorini).
    Non è proprio chiaro il motivo per il quale Campriani pare avesse deciso poco dopo il suo diploma di abbandonare la pittura per dedicarsi al commercio, tuttavia è certo che allora si rivelò fondamentale il sodalizio con De Nittis, il quale
    tornando a Napoli da uno dei suoi soggiorni parigini rimase tanto impressionato dai risultati raggiunti all’amico che lo convinse a seguirlo nella Ville Lumière per presentarlo al celebre mercante d’arte Goupil. L’incontro fu davvero felice, se
    il noto negoziante richiese l’esclusiva di tutti i lavori dell’artista per ben quattordici anni. Mentre però è nota ed evidente l’influenza del raffinato ed elegante ambiente cittadino sulla produzione di De Nittis, Campriani rimase sempre fedele a
    se stesso e a quel paesaggismo bucolico che si era impresso nella sua sensibilità artistica sin dai primi tentativi pittorici, esaltato dalle teorie degli scolari porticesi. Tale anzi fu la nostalgia della sua terra e di quelle vedute che frequenti furono i viaggi in Italia, fino ad un ritorno definitivo a seguito della cessione del contratto con Goupil nel 1884. Rimaneva il grande successo internazionale ottenuto dall’artista, i cui quadri erano in bella mostra tanto nelle esposizioni di tutta Europa che nei salotti dei più nobili estimatori d’arte dell’epoca.
    Agli ultimi anni parigini o a quelli subito successivi in Italia (quest’ultimi costellati di partecipazioni alle più importanti
    esposizioni nazionali) deve forse risalire la tela proposta, raffigurante con ogni probabilità una veduta campestre diCapri (le cui marine si ripresentano spesso nella produzione di Campriani dell’epoca), con i caratteristici mandorli in
    fiore pure protagonisti di altre opere dell’artista e con la coppia di popolani intenti nel tradizionale intonare musica pastorale suonando due siringhe; soggetto quasi identico (ma assai semplificato) poteva osservarsi in una Pastorella che suona la siringa, documentata fotograficamente ma ormai di ignota ubicazione. La semplicità formale caratteristica dell’autore si combina (come in quasi tutta la sua produzione) con la costante attenzione che egli sempre volse alla luce ed i suoi effetti, non esente qui, nell’illuminazione frontale del pieno mezzogiorno che quasi cancella le zone d’ombra, dalle influenze del Fortuny, che affascinò evidentemente Campriani (come del resto l’intero gruppo di Resina) durante il soggiorno a Portici negli anni Settanta del secolo; lo spettro cromatico è particolarmente ricco, forse più di molte
    altre tele dell’autore e certamente al livello dei suoi capolavori, con l’ampia gamma dei verdi interrotta dalle molteplici variazioni di tono dell’azzurro, del marrone, del rosa che in particolare screzia meravigliosamente il bianco dei fiori di mandorlo. Si può dunque dire in definitiva che, se c’è tutta una produzione (quella più giovanile) di Campriani dedicata all’avida analisi della realtà ed alla sua resa oggettiva nell’opera d’arte, qui la lezione palizziana è andata
    smorzandosi e raffinandosi, nell’intento di comprendere più poeticamente il paesaggio e di rappresentarne anche il sentimento, l’invisibile, poiché esso, adoperando una felice espressione del critico del tempo Vittorio Pica, «non deve
    parlare soltanto agli occhi, ma anche all’anima di chi lo guarda».
    Stima minima €9000
    Stima massima €14000
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