Palizzi Francesco Paolo (Vasto, CH 1825 - Napoli 1871)
Natura morta
olio su tela, cm 106,5x60,5
firmato in basso a sinistra: Franz Paul Palizzi
Provenienza: coll. privata, Parigi; coll. privata, Napoli
Penultimo delle “nove muse” (noto soprannome con cui era definito insieme ai suoi fratelli, tutti più o meno versati nella arti) di Casa Palizzi, Francesco Paolo giunse a Napoli dalla nativa Vasto nel 1845 per iscriversi al Real Istituto di Belle Arti; qui fu dapprima allievo di Camillo Guerra con l’intenzione di diventare pittore di scene storiche,
venendo dunque avviato dal proprio mentore a quel convenzionalismo accademico tipico dell’epoca, poi decise di seguire invece gli insegnamenti di Gennaro Guglielmi (artista in cui confluivano tanto la tradizione locale che le nuove spinte naturalistiche) orientandosi verso la natura morta. Sulla scia di questo nuovo interesse Francesco Paolo studiò attentamente i grandi maestri della pittura napoletana di genere del Seicento, come Recco e Ruoppolo, ma fu attirato soprattutto dalle composizioni più semplici, ridotte a pochi elementi, di un Luca Forte o del settecentesco Giacomo
Nani, entrambi artisti memori della più ortodossa tradizione caravaggesca all’insegna del luminismo.
Negli anni di formazione fu innegabile (come ovvia) tuttavia anche l’influenza dei più affermati fratelli maggiori di Francesco Paolo: Filippo prima, quindi (e soprattutto) Nicola, il quale trasmise al nostro quella pittura materica e corposa, a larghe pennellate strutturanti, che fu alla base dell’ormai riconosciuta (grazie specialmente agli studi di
Michele Biancale e Raffaello Causa) innovazione che Francesco Paolo seppe apportare al genere tradizionale della natura morta; non mancò infine l’esempio di Giuseppe Palizzi, raggiunto a Parigi dal fratello minore nel 1857.
L’immersione nel clima della Ville Lumière non poteva lasciare indenne la pittura di Francesco Paolo: la pennellata si fece più rapida, il greve chiaroscuro andò illuminandosi, i colori divennero più vivi e brillanti; questa trasformazione
fu con ogni probabilità causata dallo studio delle opere del celebre Chardin nonché dal contatto col giovane Manet, il quale pure in quel periodo andava recuperando la tradizione della natura morta francese: dobbiamo immaginare per
lo meno una visita all’importante mostra tenuta dal pittore francese presso la galleria Martinet nel 1865, se nelle opere del giovane Palizzi ora presso il Banco di Napoli o la stessa Accademia di Belle Arti si ritrova una resa sintetica del tutto simile a quella di Manet (nello sviluppo poi di temi tipici dell’artista francese, come quelli delle ostriche e delle peonie) o addirittura vere e proprie citazioni, come il virtuosistico coltello in bilico sul margine del tavolo a definire prospetticamente lo spazio della rappresentazione.
Se il soggiorno parigino fu costellato da molteplici partecipazioni ai Salon locali, fino a culminare nella presenza all’Esposizione Universale del 1867, Francesco Paolo non dimenticò mai di inviare i suoi lavori alle Mostre della Società Promotrice di Belle Arti di Napoli, di cui era socio fin dalla fondazione nel 1862. Nella città partenopea l’artista tornò poi effettivamente e definitivamente dopo alcune peripezie nel 1870, allo scoppio della guerra franco-prussiana; a Napoli s’ammalò e morì prematuramente solo un anno dopo.
Avendo riportato nella sua città d’adozione solo poche opere (in gran parte donate nel 1898 da Filippo Palizzi all’Accademia locale) prima dell’improvvisa ed inaspettata dipartita, molta della produzione di Francesco Paolo è perduta tra i salotti dei collezionisti francesi o comunque internazionali. Proprio per questo la tela proposta risulta tanto più preziosa, in quanto costituisce un insperato ed importante recupero di un autore asceso (secondo il parere ormai unanime degli studiosi, come detto) all’Olimpo degli innovatori napoletani dell’Ottocento. Ancora più, quest’opera può
considerarsi a ragione una summa di più temi cari all’autore e riscontrabili perciò nei suoi quadri ora musealizzati: c’è la bella pentola di rame col crostaceo vermiglio, un’accoppiata quasi senza pari nella produzione dell’artista, ripresa solamente dal Paiuolo con gamberi, molto simile (la tela, creduta perduta, è stata identificata solo di recente in una
collezione privata); c’è la cacciagione, visibile più volte nella collezione dell’Accademia di Belle Arti di Napoli ma qui declinata secondo la scelta inedita di due fagiani al posto delle più tradizionali pernici ed anatre, e ci sono infine i
funghi (pure all’Accademia) con il coltello, quel succitato accento caratteristico di Palizzi ma ereditato dalla più grande pittura francese coeva.