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RICERCA: palizzi
  • Gemito Vincenzo (Napoli 1852 - 1929)
    Autoritratto
    tempera su carta, cm 52x40
    firmato e datato in basso a destra: V. Gemito 1916

    a tergo iscritto Galleria Bollardi Milano


    Provenienza: Galleria Bollardi Milano; Coll. T. Giosi Napoli; Coll. E. Catalano Napoli


    Bibliografia: A. Schettini, La pittura napoletana dell’Ottocento, Vol. II, E.D.A.R.T., Napoli 1967, pag. 271; N. D’Antonio, Pittura e Costume a Napoli fra Otto e Novecento. Incontri con Tullio Giosi, Ed. Fausto Fiorentino, Napoli 1995, pag. 52

    Vincenzo Gemito è stato a lungo l’unico artista napoletano del secolo diciannovesimo ed esser ricordato in pratica dalla storiografia di settore (fino alla recente riscoperta di tanti maestri suoi contemporanei), complici i numerosi riconoscimenti ottenuti in vita dentro e fuori la penisola italica nonché il favore riservatogli durante l’età fascista (addirittura dallo stesso Mussolini).
    Il solo udire il cognome di questo artista subito riporta alla mente la sua vasta e celeberrima produzione scultorea, tipicamente ricreata “per porre” di materiali semplici (soprattutto gesso e terracotta, e solo più tardi bronzo) ma altamente espressivi, nonché sempre all’insegna di una stretta aderenza al dato reale, così come Stanislao Lista (uno dei suoi primi maestri, insieme al Caggiano) andava propugnando in scultura allo stesso modo di Filippo Palizzi in pittura.
    Il genio di Gemito non sta tuttavia solo in opere quali il “Giocatore”, il “Pescatorello”, ’”Acquaiolo” (e generalmente tutti i numerosi ritratti di guappetielli locali) o il “Filosofo” (raffigurante il suo amato patrigno Masto Ciccio), ma anche (e anzi prima ancora, trattandosi spesso di studi preparatori) nella ricca produzione grafica, già lodata in passato da tanti maestri indiscussi: Alberto Savinio molto ne sottolineò il valore artistico, e suo fratello Giorgio De Chirico arrivò perfino a paragonare Gemito a Dürer! I disegni di Vincenzo cominciarono ovviamente col suo apprendistato artistico, come ovvi progetti cioè di successive creazioni scultoree, ma si fecero poi particolarmente numerosi e, soprattutto, fini a se stessi ed assolutamente indipendenti dall’arte favorita del proprio autore negli ultimi decenni della vita di questi, ovvero nel ventennio (circa) della follia, allorché sconvolgenti eventi nella biografia di Gemito uniti a delusioni in ambito lavorativo (specialmente legate, quest’ultime, alla difficile realizzazione delle commissioni reali per la statua del Carlo V per il Palazzo Reale di Napoli e per un “Trionfo da tavola” in argento da custodirsi presso la Reggia di Capodimonte) lo costrinsero finanche al ricovero; la particolarmente ricca produzione disegnativa viene insomma a spiegarsi attraverso la liberazione dalle ansie causate dai vincoli progettuali delle pressanti commissioni ricevute.
    Al termine del difficile periodo appena descritto va a collocarsi l’opera proposta, che nello sguardo attento ma ancora allucinato dell’artista autoritrattosi tradisce ancora le vestigia della crisi a malapena superata. Come felicemente intuirono sia il Somarè che il Siviero la caratteristica peculiare e più potente della grafica di Gemito sta nella sua concezione del disegno in profondità («simile anche in questo agli antichi») e non in superficie (come erano soliti invece fare i suoi contemporanei), restituendo all’osservatore una sensazione di spazialità tanto forte «da suscitare l’illusione che l’aria vi circoli».
    Stima minima €8000
    Stima massima €13000
  • Dalbono Edoardo (Napoli 1841 - 1915)
    L'arrivo della tempesta
    olio su tela, cm 58x96
    firmato in basso a sinistra: E. Dalbono
    a tergo: timbro Coll. Mele, Napoli

    Provenienza: Coll. Mele, Napoli; Coll. privata, Napoli

    Edoardo Dalbono rientra in quella categoria fortunata di artisti i quali non ebbero la stretta necessità di frequentare accademie per intraprendere il mestiere, magari patendo la fame per mantenersi negli studi, poiché nato in una famiglia che poteva vantare numerosi letterati fu avviato al mondo della cultura fin dalla più tenera età, seguito da precettori o più semplicemente dal padre, dipendente pubblico e poeta estemporaneo; questa figura fu in effetti determinante per il futuro del Dalbono, il quale innanzitutto principiò la propria produzione artistica con piccole illustrazioni ispirate proprio agli scritti folcloristici del padre, poi fu grazie ai contatti di quest’ultimo col mondo dell’Arte se il giovane pittore poté conoscere i maestri napoletani Giuseppe Mancinelli e Nicola Palizzi.
    Tutta la differenza intercorrente tra i due pittori di riferimento del Dalbono si riscontra nelle prime sue opere esposte, oscillanti tra composizione storica e paesaggismo naturalistico (San Luigi re di Francia soffermatosi sotto di una quercia rende giustizia ad una famiglia che riverente a lui ricorre, oggi irreperibile, e Studio di un mulino). La seconda tendenza dominerà poi di fatto la maggior parte della produzione dell’artista, tutto rapito dalle vedute campane, riprodotte principalmente seguendo dittami e metodi della Scuola di Posillipo. Dalbono può tuttavia a ragione considerarsi un radicale innovatore rispetto alla cerchia di Gigante, se superò di fatto la più stretta adesione alla realtà per elevarsi invece ad atmosfere più oniriche e trasognate, pertinenti piuttosto alla dimensione del mito: è proprio poetizzando il mondo naturale che l’artista pervenne alla sua opera probabilmente più famosa, La leggenda delle Sirene, pluripremiata e di grande successo presso i collezionisti (tanto che se ne moltiplicarono a dismisura le riproduzioni).
    È noto inoltre quanto il mercato del tempo apprezzasse le rappresentazioni dei luoghi simbolo del Grand Tour, così accadde che Dalbono (come altri suoi contemporanei) fu contattato da Goupil (per intercessione di Morelli e De Nittis) che lo volle in esclusiva per ben nove anni; il trasferimento a Parigi fu tuttavia molto difficoltoso e sofferto ed il nostro non smise di scrivere nella propria corrispondenza quanto gli mancasse Napoli e soprattutto il suo mare ed i suoi colori. Logico allora che dopo l’agognato ritorno in patria l’artista non volle allontanarsene mai più fino alla fine dei suoi giorni, affiancandosi intanto alla tradizionale attività pittorica quelle assai ricche di decoratore (nell’ambito dei progetti legati al Risanamento), illustratore (principalmente per l’Illustrazione italiana) nonché di critico storicoartistico (celebre la sua commemorazione di Morelli). Uno tra i molti scritti dedicatogli dopo la sua scomparsa definisce Dalbono “il pittore della luce”, ed in effetti a ben guardare l’intera sua produzione si nota facilmente come il suo sguardo in fin dei conti si sia posato là dove batteva più forte il sole, o comunque dove bagliori chiari esaltassero le forme altrimenti inghiottite dall’oscurità (basti pensare alle eruzioni vesuviane), in una trasfigurazione (verso il mondo del sogno, si diceva) del percepito che viene restituito al compiaciuto spettatore nei suoi aspetti più vivaci, più seducenti, in sostanza più belli. Non fa eccezione l’opera proposta, che è del resto la declinazione di un tema assai caro all’ autore secondo poi il suo stile più caratteristico: la marina partenopea, con quella “curva vaghissima del golfo” (per citare il critico Pica), con le sue barche ed i suoi pescatori, si stende dinanzi l’osservatore sul mare piatto baciato dal sole, del tutto simile a quel che può vedersi nella spesso documentata Nel porto di Napoli o nella Festa della Madonna del Carmine; l’unico possibile disturbo è quella tempesta che dà il titolo alla tela, burrasca che è appunto solo in potenza e non ancora in atto proprio per non sconvolgere la ridente veduta, ma che del resto occupa la maggior parte della composizione offrendosi all’autore come occasione per sbizzarrirsi in una serie di sfumature coloristiche delicate e trasognanti che, come nell’opera Mare a Torre Annunziata esposta alla Prima Internazione di Venezia, culminano a partire dai più freddi celesti in un susseguirsi di rosa, aranci, gialli che sottintendono un sole invisibile allo spettatore ma pronto, dopo il maltempo passeggero, a risplendere nuovamente.
    Stima minima €14000
    Stima massima €18000
  • Smargiassi Gabriele (Vasto, CH 1798 - Napoli 1882)
    La valle dei mulini
    olio su tela cm 86x65

    Provenienza: Coll. privata, Parigi; coll. privata, Napoli



    Bibliografia: OTTOCENTO catalogo dell'arteitaliana Ottocento Primo Novecento n° 41, Metamorfosi Ed. Milano 2012, a colori(studio)

    Come già felicemente intuito e scritto da Alfredo Schettini anni orsono, la figura di Gabriele Smargiassi risulta complessa ed in qualche modo ambigua, tanto più agli studiosi di settore: questo perché a fronte di un enorme successo fra i più prestigiosi collezionisti e committenti internazionali del tempo, che portarono l’artista a viaggiare per buona parte del continente europeo, fioccarono altrettanto numerosi i giudizi negativi sulla sua persona e sulla sua arte, per motivi che oggi possiamo asserire con maggiore lucidità di una volta per nulla obiettivi ed al contempo comprensibili; volendo essere più concreti, il punto della questione è che le forze nuove, in questo caso specifico la rivoluzione che a Napoli fu portata avanti in campo artistico da Filippo Palizzi da un lato e Domenico Morelli dall’altro (con rispettivi seguaci), non potevano che tentare di affermarsi attaccando e ribaltando la tradizione, che appunto per la Scuola di Paesaggio trovava il suo più fiero e convinto assertore in Smargiassi, appassionato seguace di Nicolas Poussin.
    Come s’è tuttavia accennato sarebbe erroneo legare indissolubilmente tutta la produzione del nostro artista agli stilemi del vedutismo settecentesco. Il giovane Gabriele fu infatti fra i primissimi allievi Anton Sminck van Pitloo, e non fu affatto refrattario alla lezione del maestro olandese: è comprovato infatti che Smargiassi studiasse e dipingesse dal vero, e che anzi considerasse per i suoi allievi un vero premio la possibilità di farsi seguire nelle proprie sessioni en plein air; inoltre dalle sue proprie parole, riportateci sempre da Schettini, pare anche possibile pensare che egli considerasse l’intenzione dell’artista, la sua inventiva, insomma il momento lirico, superiore alla pura e semplice registrazione del vero, avvicinandosi dunque a certe posizioni della Scuola di Posillipo, di cui Pitloo fu come è noto fra i principali rappresentanti.
    La grande tela proposta viene dunque a rappresentare uno dei più autentici e felici esiti dell’arte di Smargiassi, sospesa fra reminiscenze settecentesche e poetica reinterpretazione del vero di sapore del tutto nuovo. La datazione del resto, ricavabile come la certa attribuzione dal raffronto con una versione più piccola di quest’opera (appunto firmata, datata ed anche pubblicata), ne consente la collocazione in un periodo di grande successo dei posillipisti (allorché Giacinto Gigante ne divenne in qualche modo caposcuola alla morte del Pitloo), con gli ideali dei quali, evidentemente, Smargiassi non poté non confrontarsi, a prescindere dalle proprie personali posizioni estetiche.
    Stima minima €20000
    Stima massima €30000
  • Morelli Domenico (Napoli 1823 - 1901)
    L'odalisca
    olio su tavola cm 41x22
    a tergo: timbro e iscrizione G. Della Marra; dipinto di D. Morelli, P. Vetri
    Esposizioni: Napoli 1929
    Bibliografia:Quadri Antichi e Moderni Sig. Rosalba di Villanova, Eredi del Grande Maestro Domenico Morelli , Collezionista inglese e altre case partizie, Galleria Canessa Napoli 1929, tav. XLII n. ord. 524 in b/n; Domenico Morelli e il suo tempo a cura di Lusa Martorelli , Electa Napoli 2005 pag. 145 a colori

    Se l’interesse per l’Oriente aveva accesso gli animi europei fin dall’inizio del diciannovesimo secolo, vuoi per motivi storico-archeologici, vuoi per passioni spirituali, vuoi semplicemente come fuga dalla crescente industrializzazione, ovviamente non tutti gli artisti furono allora in grado di compiere in prima persona viaggi verso quelle mete tanto esotiche. Prima della rivoluzione che nel nome del realismo in pittura sconvolse gli ambienti artistici innanzitutto meridionali e partenopei, attuata come ben si sa da Domenico Morelli e Filippo Palizzi, coloro che non avessero avuto diretta esperienza delle terre d’Africa si limitarono per lo più a ricrearle su tele e tavole con vivida fantasia; il Morelli tuttavia, e chi venne dopo di lui, non poté non basarsi strettamente su documenti di varia natura (per lo più testuali e fotografici) per dar vita alle sue composizioni orientaliste, di cui mai ebbe visione dal vero, cosicché esse risultano di notevole realtà, tenendo beninteso a mente il motto dell’autore che le voleva «vere ed immaginate all’un tempo». I soggetti orientali di Morelli si moltiplicano dunque in modi e tempi diversi. Le odalische del maestro (fra le varie una è alla milanese Fondazione Giuseppe Verdi, una al Museo di San Martino in Napoli), in particolare, sintesi eccellenti di mistero e sensualità, attraversano tutti gli anni Settanta dell’Ottocento per culminare nella ‘Sultana e le sue schiave’ (Milano, Fondazione Internazionale Balzan) del 1883, grande tela in cui a suggestioni africane si mescolano curiosamente elementi giapponesi; quest’ultima opera e la sua particolarità testimoniano il già avvenuto incontro col grande artista catalano Mariano Fortuny, dal quale Domenico si lasciò influenzare anche in direzione di una pittura all’insegna della luce e soprattutto di vibranti contrasti cromatici. Appunto in un catalogo di vendita di opere provenienti dagli eredi stessi del Morelli della tavola proposta si esaltano la «morbidezza dei toni» e gli «smaglianti colori» (e, aggiungeremmo noi, il notevole e ben bilanciato contrasto fra la scurezza del fondo e delle chiome corvine e la candida trasparenza delle vesti della giovane modella). La veloce pittura di macchia va invece rarefacendosi in senso verticale sulla tavola, andando via via incontro ad una quasi totale smaterializzazione, il cui principale effetto è il grande risalto ottenuto di contrasto dal viso della sensuale odalisca, il cui sguardo molle nonché le labbra appena dischiuse si fanno promesse di un lirico erotismo.
    Stima minima €10000
    Stima massima €15000
  • Netti Francesco (Santeramo in Colle 1832 -1894)
    Un angolo del mio studio
    Olio su tela, cm 44,5 x 54,5
    Sul retro frammenti di etichetta della “IX Esposizione della Città” – 4; antico bollino: 189.
    Provenienza: Coll. privata, Bari; Coll. Comm. Edoardo Dalbono, Napoli; Coll. privata, Napoli
    Esposizioni: IX Esposizione Nazionale d’Arte di Venezia, 1910; Mostra di Francesco Netti, sala 37, n.4, Bari 1980.
    Bibliografia: IX Esposizione Internazionale d’Arte della Città di Venezia, catalogo della mostra, Venezia 1910, pp. 146-149: “Mostra di Francesco Netti”, a cura di Giovanni Tesorone; L. Azzarita, IX Biennale d’Arte a Venezia. I Meridionali: Francesco Netti, in «Corriere delle Puglie», 12.7.1910; A. Valentini, Arte e artisti pugliesi. I quadri del Netti a Venezia, in «Corriere delle Puglie», 3.12.1910; A.M. Comanducci, I pittori italiani dell’Ottocento, Milano 1934, p.473; A.M. Comanducci,Dizionario illustrato dei Pittori, Disegnatori e Incisori Italiani Moderni e Contemporanei, Milano 1973, IV° vol., p. 2209; C. Farese Sperken, Francesco Netti (1832-1894) un intellettuale del sud, Catalogo Mostra Pinacoteca Provinciale di Bari, marzo-maggio 1980, Roma 1980, p.42 tav. 2 (ma con riproduzione errata); R. Caputo, La Pittura napoletana del II Ottocento, Di Mauro Editore, Sorrento (NA) 2017, p.129.

    Francesco Netti appartiene a quel gruppo di pittori napoletani discepoli, fra il 1860 e il 1870, di Filippo Palizzi e Domenico Morelli. Artisti così diversi per temperamento, per sentimento e per espressione tecnica ma che rappresentarono a Napoli tutto un tempo e tutta una scuola. Essi, prima ancora di essere insegnanti, erano innanzitutto pittori. I quali fecero sorgere, attorno a loro, artisti come Dalbono, Toma, Tofano, Boschetto e Netti. Gli stessi che fiorirono in quella primavera dell’arte italiana che fu la Mostra Napoletana del 1877 dove, per l’appunto, si poté osservare il genio di Francesco Paolo Michetti, Antonio Mancini, Vincenzo Gemito, Achille D’Orsi e tanti altri. Fu allora che Eleuterio Pagliano pronunziò la frase così generosa per un italiano del nord, il sole viene dal Mezzogiorno. Assorbendo, dunque, questo “bagliore” artistico, il pittore di Santeramo in Colle, sviluppò la sua cifra pittorica. Egli fu sempre un sentimentale per ciò che attiene lo spirito dell’artista ma soprattutto un pittore dotato di fine cultura; fu critico d’arte sottile ed ebbe il pregio di vedere l’arte, come la sua vita, in maniera aperta, semplice, sincera e da vero aristocratico dell’intelletto e del cuore. A distanza di molti decenni dalla prima ristampa dei suoi scritti e dopo le analisi critiche di Paola Barocchi del 1972, appare più chiaro, nella storia della critica d’arte, «il posto e il significato» dell’opera di Francesco Netti e il riconoscimento di una realtà percorsa da non poche trasformazioni, di cui gli artisti e i critici furono protagonisti consapevoli del cambiamento. Ruolo svolto con autorevolezza da Netti, accanto a quella di Imbriani e degli altri artisti e critici che negli anni precedenti l’unificazione e quelli immediatamente successivi, furono impegnati nell’opera di “svecchiamento” dell’arte nazionale. A maggior ragione e ritornando al Netti pittore, va sottolineato che Un angolo del mio studio, esposto alla Biennale veneziana del 1910, assume un valore emblematico proprio per la specifica attività artistico-culturale di Netti. Il duplice talento e la problematica doppia attività, raramente trovano un’esplicazione così chiara come in questo dipinto. Mentre l’osservazione delle stampe e di alcune foto da parte della donna in primo piano rimanda al pittore, la scrivania e i libri e le carte sullo sfondo rivelano, con discrezione, l’attività letteraria del Netti.


    Stima minima €7000
    Stima massima €10000
  • Toma Gioacchino (Galatina,LE 1836 - Napoli 1891)
    Assorta
    olio su tela, cm 64x52
    firmato in basso a sinistra: G. Toma

    Formatosi per lo più come autodidatta, pochissimi sono i contatti documentati fra Giacchino Toma ed il mondo della napoletana Accademia d’arte (la principale, si ricordi, nel meridione ottocentesco), cosicché l’artista si trovò coinvolto senza solidi punti di riferimento negli “scontri” che videro opporsi prima tradizioni pittoriche e nuove poetiche del vero, poi all’interno di quest’ultime (entro certi limiti) le due fazioni facenti capo a Domenico Morelli e Filippo Palizzi, i due grandi protagonisti della succitata rivoluzione artistica partenopea: il Toma insomma s’avvicinò con le opere sue realizzate a Napoli vuoi all’uno vuoi all’altro di questi due pittori, con esiti di mutevole valore. Il primo successo tomiano fu probabilmente ‘Un esame rigoroso del Santo Uffizio’ alla Promotrice del 1864, un’opera di chiara impronta morelliana che, come si è detto, incontrò un tale favore da essere inviata tre anni dopo all’Universale di Parigi; sfogliando tuttavia il memoriale di Toma (fonte principale per conoscere la sua vita e comprendere la sua arte) può leggersi come le molte lodi ricevute sortirono un effetto contrario a quanto ci si aspetterebbe, rendendo cioè l’artista conscio delle proprie lacune estetiche e più generalmente culturali e spingendolo pertanto ad un periodo di sfrenate letture: queste condussero con ogni probabilità Gioacchino ad interessarsi alla Rivoluzione Napoletana del 1799 ed in particolare al soggetto delle «signore del ‘99», tema che lo impegnerà (con una profonda crisi di mezzo) per circa dieci anni. L’opera proposta potrebbe ascriversi fra questi soggetti o almeno ne risulta profondamente influenzata, considerate ad esempio le molteplici somiglianze (l’impostazione della protagonista, la cuffia candida, l’ambientazione che dai pur vaghi colori appare essere in un interno, che Toma preferiva) con la celebre ‘Luisa Sanfelice in carcere’; come in quest’ultimo capolavoro inoltre l’interesse principale dell’autore qui risiede nell’approfondita indagine psicologica e nella sua fedele trasposizione su tela (cosicché la tragica vicenda della celebre rivoluzionaria partenopea finiva per consistere più che altro in un mero pretesto e nulla più). Se già tramite la Sanfelice risulta possibile risalire indirettamente ad ulteriori modelli all’interno della produzione di Domenico Morelli (come poi abbiamo più sopra sottolineato), di quest’ultimo varrebbe la pena accostare all’opera in asta la varia serie di odalische, in parte per lo stile cromatico che esalta gli sgargianti toni di bianco sui vari colori terrei ma soprattutto per il vago erotismo voyeuristico che effonde da tutte queste opere. Seguendo questa pista nuovi, illustri precedenti del Toma potrebbero ancora ritrovarsi nella lunga e celeberrima serie di figure femminili ignude dipinte da Francesco Hayez già fra gli anni Trenta e Quaranta del secolo: si ricordino la “Rebecca”, la “Ruth” e la “Tamar di Giuda”; Hayez tuttavia, probabilmente per una più stretta adesione ai valori del passato più o meno prossimo, valori tanto estetici che morali, non permeò mai le sue tele d’una seduzione altrettanto carica, ed anzi in qualche modo frenò la stessa trasfigurando il nudo in episodi biblici con le rispettive eroine, archetipi indiscutibili di purezza e onestà.
    Stima minima €9000
    Stima massima €15000
  • Morelli Domenico (Napoli 1823 - 1901)
    Ritratto dell'architetto fiorentino Gaetano Bianchi
    olio su tela, cm 62x51
    firmato e datato in basso a destra: D. Morelli 1870
    a tergo cartiglio Mostra dei pittori italiani dell'800 Roma 1952


    Provenienza: Coll. Checcucci, Firenze; Coll. Portolano, Milano


    Esposizione: Roma 1952


    Bibliografia: Mostra dei pittori italiani dell'800 Roma 1952 tav. LIV; I Grandi pittori dell ottocento italiano- A. Schettini La scuola napoletana, A. Martello ed. 1961 Milano tav. XX



    È ben noto quanto la forte personalità di Domenico Morelli ed il suo carisma abbiano contribuito, unitamente come è ovvio alla sua mirabile arte, a farne un personaggio di primo piano per nulla limitato ai semplici dibattiti artistici del suo tempo. Un personaggio di tale spicco, ben presente nei salotti della migliore società, non poteva non attrarre le più ricche committenze, e pertanto dalla sua mano fioccarono numerosi ritratti (genere pittorico comunque tra i favoriti del nostro, se già risalgono ai primi anni Cinquanta dell’Ottocento varie rappresentazioni dei membri della famiglia Villari con lui poi imparentata): basti ricordare fra questi quelli di uomini illustri del tempo (il giureconsulto Antonio Starace al Museo di San Martino in Napoli, Gaetano Filangieri nell’omonimo museo della stessa città, Quintino Sella al Museo del Risorgimento), di grandi mecenati (Morelli ritrasse più volte Giovanni Vonwiller, il suo più celebre protettore, nonché vari membri della famiglia di questi, né va dimenticato il dipinto raffigurante Paolo Rotondo, dalla cui collezione è nata la celebre galleria del Museo di San Martino di Napoli), di molti artisti (famosissimo il “faticoso” ritratto del 1858 di Giuseppe Verdi, eseguito a quattro mani con Filippo Palizzi, mentre ancora al napoletano Museo di San Martino sono le raffigurazioni di don Giacinto Gigante e di Cesare Dalbono, allievo quest’ultimo del Morelli).
    Al filone dei ritratti di artisti va ricondotto questo proposto, raffigurante il fiorentino Gaetano Bianchi, probabilmente conosciuto dal Morelli negli anni del Caffè Michelangelo. Bianchi fu architetto e pittore, assai influenzato dal gusto tipicamente locale del tempo per la grande arte del Quattrocento toscano, ed ebbe gran fama per l’attività di eccellente restauratore: in Firenze intervenne sulla giottesca Cappella de’ Bardi in Santa Croce (nonché sugli affreschi della sagrestia della stessa chiesa), sulla chiesa di Orsanmichele e sul Bargello, nonché a più riprese sul Palazzo Vecchio; la succitata celebrità gli valse inoltre alcune committenze al di fuori delle mura della sua città, come (per citare le più importanti) i restauri degli affreschi di Piero della Francesca ad Arezzo e quelli del palazzo ducale di Mantova.
    Stima minima €7000
    Stima massima €12000
  • Palizzi Filippo (Vasto, CH 1818 - Napoli 1899) Cavalli in amore olio su tela cm 31x44,5 firmato in basso a sinistra: Fil. Palizzi

    Nella carriera di Filippo Palizzi il rapporto tra l’artista ed il mondo animale occupa come è noto uno spazio assai cospicuo, e non a caso nella vasta bibliografia sull’autore ricorre spesso in suo proposito la precisa espressione di “realismo animalista”.
    Se in effetti il rapporto appena citato potrebbe essere fatto risalire già ai primi anni di vita del nostro artista, quando egli con i molti fratelli e sorelle modellava in creta elementi del presepio, per un più significativo confronto bisognò attendere gli anni napoletani, quando Filippo, pur avendo abbandonato gli studi accademici al Real Istituto di Belle Arti, per partecipare ugualmente ai concorsi da esso banditi prese a ritrarre animali dal vero nelle campagne.
    In una prima fase, coincidente grosso modo col quinto decennio dell’Ottocento, il Palizzi in realtà non dovette nella rappresentazione del mondo animale comportarsi molto differentemente da quanto già andava facendo per i costumi popolari, dividendosi cioè tra visione concreta del reale e studio di repertori di incisioni altrui: nel campo specifico della raffigurazione di equini fu ad esempio piuttosto logico ispirarsi ad opere inglesi, principalmente (a quanto sappiamo da documenti e confronti stilistici) quelle di John Frederick Herring.
    Un cambiamento di rotta sensibile, o meglio un ribaltamento della situazione di partenza, si verificò invece nel corso degli anni Sessanta, quando cioè Filippo si convinse del fatto che gli animali fossero in realtà ben più interessanti da rappresentare degli uomini stessi, e per una motivazione non in qualche modo etica quanto piuttosto puramente estetica: l’attenzione veniva così tutta a concentrarsi nella resa della primordiale comunione tra fauna e flora nonché dei molteplici effetti ottici determinati dal diverso posarsi della luce sul pelo ferino. A testimonianza di questa sfida rimane l’opera proposta in cui, in uno spazio recintato che lascia solo sottintendere la presenza umana, stanno alcuni cavalli a ruminare, dei quali i due in primo piano presentano in effetti sul manto vellutato un sapiente gioco chiaroscurale che modella ed esalta tangibilmente i possenti muscoli sottostanti, quasi fossimo in presenza di una scultura tridimensionale piuttosto che di un semplice dipinto.
    Stima minima €8000
    Stima massima €13000
  • Leto Antonino (Monreale, PA 1844 - Capri, NA 1913)
    I figli del mare
    olio su tela, cm 60,5x80
    firmato e iscritto in basso a sinistra: A. Leto Capri
    Il dipinto è stato registrato negli archivi dell' Istituto Matteucci con il n° 411038



    Provenienza: Gall. A. Vitelli, Genova; Coll. privata, Torino; Sotheby's, Milano; coll. privata, Napoli




    Bibliografia: Sotheby's, Milano 2010; Ottocento.Catalogo dell’Arte italiana dell’Ottocento – primo Novecento, n.40, Ed. Metamorfosi Milano 2011, tav. a colori; G. L. Marini, Il valore dei dipinti dell'ottocento e del primo novecento, Allemandi & C. editore, XXIX ed. 2011/2012, pag. 451


    Non è evidentemente bastata la vicinanza di Antonino Leto a vari movimenti artistici, nonché i suoi frequenti spostamenti dentro e fuori l’Italia (come si vedrà), per garantire all’artista una fama pari a quella di cui ancora godono gli altri membri della Repubblica di Portici, il gruppo cui il nostro è più comunemente collegato;né sorprendentemente risultano numerose le sue opere, come ci si aspetterebbe dalla sua movimentata biografia, ed in proposito non è mancata l’opinione di qualche maligno il quale, in verità senza alcuna prova effettiva, ha paventato una fantomatica e bieca operazione commerciale che avrebbe attribuito alcuni dipinti del Leto a De Nittis così da venderli ad un prezzo maggiorato (in virtù della grande fama del secondo). Con quest’ultimo artista (e con tutti gli altri porticesi, nonché con Filippo Palizzi) Antonino strinse in effetti un sodalizio sin dal suo primo soggiorno in Campania nel 1864, apprese ormai le prime nozioni di pittura a Palermo presso Luigi Barba e Luigi Lojacono; né il nostro abbandonò la pittura di macchia tipica della Scuola di Resina spostandosi, dopo un periodo di pensionato presso Roma, a Firenze (dal 1876 al ’79), dove egli anzi maturò ulteriormente questo stile pittorico tramite la frequentazione dei macchiaioli; a Firenze inoltre il Leto suscitò l’interessa del Pisani, probabilmente il più importante mercante d’arte italiano del tempo, che commerciava opere locali, di scuola napoletana nonché di matrice spagnola (cioè della cerchia di Mariano Fortuny), proprio come a Parigi faceva contemporaneamente Goupil. Pure a quest’ultimo, celeberrimo personaggio il nostro artista fu legato da un contratto essendo a Parigi dal 1879, ma già tre anni dopo Antonino rientrava in Italia stabilendosi definitivamente a Capri, ove rimase fino alla propria fine.
    L’opera proposta rientra senza ombra di dubbio in quest’ultima produzione del Leto caratterizzata da soggetti marini e spesso più specificamente capresi. Il tempo trascorso non pare tuttavia aver intaccato la giovanile (ma come s’è detto poi di fatto assidua) adesione dell’artista ai dittami della Scuola di Resina, venendo il paesaggio sì rappresentato con un’attenta fedeltà al dato reale, cioè al vero (come da tempo propugnava Filippo Palizzi), ma non senza un certo filtro soggettivo e potremmo dire lirico (lontano però dalla poetica propriamente romantica): ad esempio i bimbi ritratti, che danno all’opera il suo nome così evocativo, sembrano infatti non distanziarsi troppo in definitiva da quelle sirene che si incontrano di tanto in tanto nelle opere degli altri porticesi o comunque coevi e che incantano i pescatori che stanno interdetti a guardarle.
    Stima minima €30000
    Stima massima €50000
  • Palizzi Filippo (Vasto, CH 1818 - Napoli 1899)
    La difesa dell'erba
    olio su tela, cm 49x73
    firmato e datato in basso a destra: Filip. Palizzi 1858


    Provenienza: Art Consulting, Modena; Gall. Vittoria Colonna, Napoli; Coll. privata, Napoli

    Bibliografia: G. L. Marini, Il valore dei dipinti dell’Ottocento e del primo Novecento, X,
    Allemandi & C. editore, Torino 1993/1994, pag. 311; G. L. Marini, Il valore dei dipinti dell’Ottocento e del primo Novecento, XXI, Allemandi & C. editore, Torino 2003/2004, pag. 462; L’Ottocento Napoletano, a cura di R. Caputo, catalogo della mostra, Galleria d’Arte Vittoria Colonna, Napoli Dicembre 2005, pp. 44-45, n.21



    Ad appena un anno circa dalla morte di Filippo Palizzi già Domenico Morelli, suo amico di una vita (non senza una certa competizione), sottolineava come l’artista fosse stato un grande riformatore della pittura in chiave antiaccademica. In effetti Filippo al Real Istituto di Belle Arti di Napoli (ove egli giunse da Vasto nel 1836 sulle orme del fratello Giuseppe) resistette appena tre mesi, prendendo poi a frequentare insofferente a qualsiasi accademismo la libera scuola di Giuseppe Bonolis, dove venne fatalmente in contatto con le idee di Francesco De Sanctis: queste ultime, nonché i bandi di alcuni concorsi artistici cui volle prender parte, spinsero il nostro a studiare attentamente i propri soggetti dal vero, uso divenuto poi costante in tutta la sua produzione successiva, in particolar modo a partire dal 1847, quando Filippo prese a trascorrere ogni estate presso Cava dei Tirreni ove, egli scrisse, si trovavano «montagne, alberi, acqua, tutto; certi tipi di uomini, di donne, di una espressione ingenua, naturale, non convenzionale come in città».
    Questi interessi sono tutti presenti nell’opera proposta, sebbene appaia chiaro che tanto il paesaggio agreste quanto i due contadini in costumi popolari (allo studio di quest’ultimi Filippo dedicò un intero soggiorno in Basilicata nel corso del 1841) non siano altro che corollari all’attenta e minuziosa rappresentazione animalistica che caratterizza la maggior parte dell’opera palizziana: protagonisti assoluti della tela risultano infatti l’asinello centrale e le capre che lo circondano, tutti tesi in una dinamica che richiama chiaramente la precedente “Difesa del gregge” del 1854, ove però lo studio ancora pedissequo dei modelli da incisioni altrui s’era tradotto in pose forzate e convenzionali, mentre è qui prorompente la spontaneità conquistata attraverso la piena maturazione del linguaggio pittorico dell’autore; le capre del resto già compaiono in vari dipinti del Palizzi (basti qui ricordare il gruppo oggi all’Accademia di Belle Arti in Napoli), e pure il fieno cui esse avidamente anelano pare riprendere “Un fascio d’erba di primavera”, conservato alla Galleria Nazionale d’Arte Moderna in Roma nella celebre sala dedicata al grande artista abruzzese.
    Stima minima €35000
    Stima massima €55000
  • Palizzi Filippo (Vasto, CH 1818 - Napoli 1899)
    Piccola pastorella
    olio su tela, cm 24x38,5
    firmato e datato in basso a siistra: Fil. Palizzi 65

    Nell’ambiente artistico napoletano di metà Ottocento, incedente per lo più per inerzia fra maniere alquanto stanche, quelle innanzitutto ancora legate al vecchio accademismo d’inizio secolo ma anche in qualche modo quelle che andavano chiudendo non troppo felicemente l’esperienza della Scuola di Posillipo, Filippo Palizzi (con Domenico Morelli) causò come è noto un vero terremo, un’eruzione di idee nuove che seppero scuotere e rinnovare radicalmente la grande pittura partenopea e più generalmente del Meridione d’Italia. La sua fedele (e magari intransigente) adesione al vero, la sua personalissima concezione della “macchia” pittorica, unione di parte e tutto, di «finezze» e «totalità», ebbero come rappresentanti prediletti gli animali, quelli che il Palizzi ancora fanciullo modellava in creta per il presepe, e che poco più grande andava ritraendo “en plein air” negli anni della libera (cioè lontana da accademie) formazione (non mancò tuttavia lo studio di materiale grafico di varia natura), fino a convincersi della loro assoluta dignità quali soggetti artistici, pari alle figure umane. Si potrebbe affermare anzi che in genere le figure delle opere palizziane fanno più da servi che da padroni ai propri animali, e la piccola tela proposta ne è un ottimo esempio: la piccola pastorella, così pura ed innocente eppure quasi adulta nel dedicare la sua giovane vita già al lavoro, attende paziente in un ambiente visibilmente aspro (come piaceva al Palizzi) che le sue pecore, solo due ma che lasciano immaginare un gregge ben più numeroso, s’abbeverino ad un torrente; che gli animali siano i veri protagonisti lo rivela anche la composizione dell’opera, in cui sono proprio gli ovini ad occupare il centro, mentre la loro padroncina è lievemente spostata verso sinistra e così non attrae subito lo sguardo dell’osservatore. Ad attirare definitivamente gli spettatori pensano poi i sorprendenti effetti che la luce genera sul vello delle pecore (cui il Palizzi dedicò sempre profondo studio e cura, risultandone insuperato maestro), volutamente questo di colore diverso fra i due animali ad esemplificare felicemente il grande virtuosismo artistico dell’autore dell’opera.
    Stima minima €16000
    Stima massima €24000
  • Campriani Alceste (Terni, PG 1848 - Lucca 1933)
    Sulla via del Vesuvio
    Olio su tela, cm 35x50
    Firmato in basso a sinistra: A. Campriani
    Provenienza: Galleria d’Arte Le Muse, Cortina d’Ampezzo; Galleria Vincent, Napoli; Coll. privata, Napoli
    Esposizioni: Cortina d’Ampezzo, 2009.
    Bibliografia: P. Ricci, Arte e Artisti a Napoli (1800-1943). Cronache e memorie di Paolo Ricci, Guida, Napoli, 1981, tav.38; Società di Belle Arti e Istituto Matteucci (a cura di), La Scuola napoletana da Gigante a Mancini, Catalogo Mostra Cortina d’Ampezzo, Galleria d’Arte “Le Muse”, 01-30/08/2009, Cortina d’Ampezzo; R. Caputo, La Pittura napoletana del II Ottocento, Di Mauro Editore, Sorrento (NA) 2017, p.73.

    Alceste Campriani appartiene al cosiddetto gruppo dei “comprimari” della Scuola di Resina ed essendo nato nel 1848, era il più giovane dei pittori aderenti a tale movimento. Più giovane sia dei siciliani Lojacono e Leto e sia dello stesso De Nittis, conosciuto a Napoli nel 1862, allorquando vi era arrivato insieme al padre, esiliato dal governo pontificio per aver aderito ai moti insurrezionali e quivi iscritto all’Istituto di Belle Arti. All’Istituto rimase fino al 1869, sotto la rigida disciplina di Smargiassi, Mancinelli e Postiglione ed esercitandosi in paesaggi di piccolo formato nei quali però risultano evidenti le simpatie pe la pittura naturalistica professata dai fratelli Palizzi. Incline ad una visione quasi fotografica del vero, si legò ben presto al gruppo di Portici, animato da Federico Rossano con il quale, in particolare, condivise una concezione dello spazio costruito rigorosamente con screziature di colore e di luce. Ciò nonostante Campriani non si unì stabilmente al gruppo porticese perché non volle tradire “l’ufficialità” dell’Accademia napoletana, ma si decise a parteciparvi più assiduamente solo dopo aver concluso gli studi ufficiali. Tuttavia Campriani si esercitò a rendere i molteplici aspetti paesaggistici delle campagne vesuviane offrendo soluzioni di sorprendente semplicità, formale e cromatica, rimanendo in sintonia con gli obiettivi descrittivi e zenitali della Scuola di Resina (cit. R. Caputo, 2013, pp. 88 e segg.). A Portici era arrivato da Firenze Adriano Cecioni, il quale era stato fortemente colpito da alcune tavolette del De Nittis, viste alla «Promotrice» del ’64. Lo scultore e pittore toscano era portatore della teoria della macchia, che trovò a Napoli, secondo il suo giudizio, in De Nittis e in De Gregorio i più avanzati e sicuri interpreti di quel linguaggio, che egli giudicava esclusivamente toscano e che invece, attraverso l’ormai accertato ruolo di mediatore dell’Altamura, aveva radici anche napoletane risalendo in parte a Palizzi e probabilmente a Gigante.
    A Portici il pittore umbro trovò l’ambiente culturale adeguato alle sue ispirazioni soprattutto in Marco De Gregorio, di cui seguì l’esempio di una pittura di paesaggio che, scartando ogni elemento di facile pittoricismo, riesce a realizzare un’atmosfera rarefatta e veritiera. Ciò si riscontra soprattutto in alcune vedute, come quella qui proposta nel dipinto in questione, dipinte alle falde del Vesuvio, dove l’evidenza cristallina e il crudo realismo degli episodi quotidiani hanno una resa quasi fotografica (cit. P. Ricci, 1991, pp. 49-53). Certamente l’amicizia di De Nittis avvantaggiò il pittore ternano ma di quest’ultimo il barlettano ne stimava il talento, così come la sua pittura sciolta, serrata e nello stesso tempo piacevole. Alla radice della loro amicizia certo giovò il clima di sbrigliatezza degli artisti porticesi, la libertà di dipingere all’aria aperta; la profusione di studi e bozzetti, l’incontro quotidiano con la natura intrisa di umori veri e luce: tanta luce.
    Stima minima €20000
    Stima massima €30000
  • Villani Gennaro (Napoli 1885 - 1948)
    Sulla Senna
    olio su tela cm 84x130
    firmato,datato e iscritto in basso a sinistra: G. Villani Paris 1914
    a tergo timbro Gall. Nuova Bianchi d'Espinosa, Napoli

    Ricostruire l’attività artistica ed espositiva di Gennaro Villani nella sua completezza sarebbe un compito assai arduo, e certo nemmeno opportuno in questa occasione, eppure sottolinearne fin dall’inizio la ricchezza e complessità aiuta a dare una idea della grandezza del personaggio di cui si parla nonché dell’importante ruolo che egli ricoprì nel panorama pittorico non solo partenopeo ma appunto italiano ed internazionale, dividendosi fra eventi culturali e mostre d’arte dentro e fuori i nostri confini per almeno i primi quattro decenni del ventesimo secolo. Della sua varia produzione ben poco purtroppo è oggi visibile a tutti, perdendosi probabilmente la gran parte delle sue opere fra sterminate raccolte private, e conservandosi delle sue migliori commissioni pubbliche praticamente solo la sovrapporta eseguita fra il 1928 e l’anno successivo per la Sala “dei Piccoli giochi” del Circolo Artistico Politecnico.
    Studente dell’Accademia di Belle Arti napoletana dal 1900 al 1907, ivi Villani fu allievo del corso di paesaggio tenuto da Michele Cammarano, il quale fedele al suo proprio percorso di studi accademici e poi di ricerca pittorica improntò il proprio magistero all’insegna della lezione di Filippo Palizzi, dando cioè particolare importanza nella formazione dei giovani pittori al disegno ed ovviamente alla ripresa del vero; lo stretto legame di reciproca fiducia fra il vecchio maestro e Villani inoltre indirizzò le prime opere di quest’ultimo verso una marcata ricerca dell’effetto chiaroscurale (molto caro a Cammarano), pervenendo ad una pittura definita «bituminosa» dallo stesso giovane artista.
    La ricerca di Villani subì poi una drastica inversione di rotta col suo avvicinamento alle idee della libera scuola di Giuseppe Boschetto, che in esatta opposizione ai precetti dell’Accademia propugnava una pittura di luce fondata su una ricerca tonale di vibrante vivacità; il capolavoro del nostro che segnò questo passaggio, questa liberazione dal rigoroso chiaroscuro del suo primo mentore all’insegna di una propria peculiare declinazione dell’estetica impressionista fu “Barca rossa”, in mostra per la prima volta come pastello nel 1909 alla prima esposizione del gruppo “dei Ventitré” (giovani artisti che intendevano smuovere la stagnante situazione artistica napoletana in nome degli ideali portati avanti dalle precedenti Secessioni di Vienna e Berlino) in seguito come grande olio alla Biennale di Venezia dell’anno successivo. A cavallo di quegli anni Villani compì il suo primo viaggio a Parigi, e nella capitale francese tornò poi fra 1912 e 1914: di questi soggiorni, ed in particolare del secondo, conosciamo purtroppo ben poco eccetto qualche notizia frammentaria, così che le migliori testimonianze restano forse i dipinti (o sarebbe meglio dire appunto le “impressioni”) del maestro, a partire dal piccolo “Autoritratto a Parigi” col Moulin Rouge sullo sfondo, al quale sarà poi dedicato un intero dipinto di vasto successo espositivo compiuto nel 1914, anno in cui abbiamo testimonianze del conseguimento di una medaglia d’argento e di un diploma offertogli dal Ministero di Belle Arti di Francia; fra queste date di importanti riconoscimenti internazionali si colloca dunque la realizzazione della grande tela proposta in asta, forse da identificarsi con quel “Sulla Senna” in mostra alla XXXVII Esposizione della Società Promotrice di Belle Arti di Napoli (1915) nonché ad una collettiva presso la Galleria Costanzo, sempre nel capoluogo campano, nel Gennaio 1971.
    Stima minima €3000
    Stima massima €4000
  • Campriani Alceste (Terni, PG 1848 - Lucca 1933)
    Primavera a Capri
    olio su tela cm 55x72
    firmato in basso a sinistra: Alceste Campriani

    Provenienza: Coll. privata, Napoli

    L’ esperienza artistica di Campriani ebbe inizio nel 1862, anno del suo arrivo a Napoli dopo l’esilio della sua famiglia dalla papalina Umbria a causa degli ideali libertari del padre. Nel già garibaldino capoluogo partenopeo il giovane
    Alceste, tendenzialmente non meno ribelle del suo genitore, si rivelò inadatto agli studi intellettuali tradizionali e fu perciò iscritto all’Istituto di Belle Arti, dove ebbe per compagni personaggi di spicco quali Gemito, D’Orsi, Mancini,
    De Nittis.
    Studente poco incline all’accademismo imperante dell’epoca, Campriani mostrò ben presto simpatie per il naturalismo palizziano, avvicinandosi all’allora nascente gruppo di Resina ma non legandovisi ufficialmente (sebbene un’opera quale
    Capodimonte del 1865 mostrasse inequivocabilmente già la sua propensione ad una rappresentazione luministica dello spazio), non prima almeno del termine degli studi ufficiali conseguito nel 1869 (e dopo anche un soggiorno fiorentino in cui l’artista entrò in contatto con i macchiaioli ed in particolare con Signorini).
    Non è proprio chiaro il motivo per il quale Campriani pare avesse deciso poco dopo il suo diploma di abbandonare la pittura per dedicarsi al commercio, tuttavia è certo che allora si rivelò fondamentale il sodalizio con De Nittis, il quale
    tornando a Napoli da uno dei suoi soggiorni parigini rimase tanto impressionato dai risultati raggiunti all’amico che lo convinse a seguirlo nella Ville Lumière per presentarlo al celebre mercante d’arte Goupil. L’incontro fu davvero felice, se
    il noto negoziante richiese l’esclusiva di tutti i lavori dell’artista per ben quattordici anni. Mentre però è nota ed evidente l’influenza del raffinato ed elegante ambiente cittadino sulla produzione di De Nittis, Campriani rimase sempre fedele a
    se stesso e a quel paesaggismo bucolico che si era impresso nella sua sensibilità artistica sin dai primi tentativi pittorici, esaltato dalle teorie degli scolari porticesi. Tale anzi fu la nostalgia della sua terra e di quelle vedute che frequenti furono i viaggi in Italia, fino ad un ritorno definitivo a seguito della cessione del contratto con Goupil nel 1884. Rimaneva il grande successo internazionale ottenuto dall’artista, i cui quadri erano in bella mostra tanto nelle esposizioni di tutta Europa che nei salotti dei più nobili estimatori d’arte dell’epoca.
    Agli ultimi anni parigini o a quelli subito successivi in Italia (quest’ultimi costellati di partecipazioni alle più importanti esposizioni nazionali) deve forse risalire la tela proposta, raffigurante con ogni probabilità una veduta campestre diCapri (le cui marine si ripresentano spesso nella produzione di Campriani dell’epoca), con i caratteristici mandorli in fiore pure protagonisti di altre opere dell’artista e con la coppia di popolani intenti nel tradizionale intonare musica pastorale suonando due siringhe; soggetto quasi identico (ma assai semplificato) poteva osservarsi in una Pastorella che suona la siringa, documentata fotograficamente ma ormai di ignota ubicazione. La semplicità formale caratteristica
    dell’autore si combina (come in quasi tutta la sua produzione) con la costante attenzione che egli sempre volse alla luce ed i suoi effetti, non esente qui, nell’illuminazione frontale del pieno mezzogiorno che quasi cancella le zone d’ombra,
    dalle influenze del Fortuny, che affascinò evidentemente Campriani (come del resto l’intero gruppo di Resina) durante il soggiorno a Portici negli anni Settanta del secolo; lo spettro cromatico è particolarmente ricco, forse più di molte
    altre tele dell’autore e certamente al livello dei suoi capolavori, con l’ampia gamma dei verdi interrotta dalle molteplici variazioni di tono dell’azzurro, del marrone, del rosa che in particolare screzia meravigliosamente il bianco dei fiori di mandorlo. Si può dunque dire in definitiva che, se c’è tutta una produzione (quella più giovanile) di Campriani dedicata all’avida analisi della realtà ed alla sua resa oggettiva nell’opera d’arte, qui la lezione palizziana è andata
    smorzandosi e raffinandosi, nell’intento di comprendere più poeticamente il paesaggio e di rappresentarne anche il sentimento, l’invisibile, poiché esso, adoperando una felice espressione del critico del tempo Vittorio Pica, «non deve parlare soltanto agli occhi, ma anche all’anima di chi lo guarda».
    Stima minima €6000
    Stima massima €10000
  • Lojacono Francesco (Palermo 1838 - 1915)
    Campagna siciliana
    olio su tela cm 23.5x44
    firmato in basso a sinistra: F. Lojacono
    Provenienza: Galleria Vittoria Colonna, Napoli; Coll. privata, Napoli
    Esposizione: Palermo 2005
    Bibliografia: Francesco Lojacono 1838-1915, catalogo della mostra (Palermo, 2005-2006) a cura di G. Barbera, L. Martorelli, F. Mazzocca, A. Purpura e C. Sisi, Milano 2005, tav. 103 pag. 303 a colori ; R. Caputo, La Pittura Napoletana del II Ottocento, Franco Di Mauro Editore, Napoli 2017, p.79

    Oggi unanimemente considerato fra i migliori pittori siciliani di paesaggio del diciannovesimo secolo, Francesco Lojacono ebbe in vero modo di partecipare attivamente a tutte le principali correnti, meridionali innanzitutto ma più in generale italiane, che rinverdirono il genere nel corso dell’Ottocento portandolo alla ribalta.Avviato infatti all’arte dal padre Luigi, anch’egli pittore, il giovane Francesco ne seguì dapprima diligentemente le orme, dedicandosi a composizione storiche di respiro indubbiamente romantico. Anche il precoce interesse mostrato per il paesaggio, genere probabilmente appreso sotto la guida del primo vero maestro Salvatore Lo Forte, si mantenne inizialmente su composizioni ideali e quindi ancora legate ai gusti tipicamente settecenteschi o di inizio Ottocento; una delle sue prima prove in tal senso tuttavia gli valse comunque una medaglia d’oro alla quadriennale palermitana del 1856 e dunque gli aprì le porte del pensionato presso la capitale del Regno borbonico, Napoli. Nella città di Partenope Lojacono rinnovò in un primo momento la propria arte alla vista dei capolavori di Giacinto di Gigante, ma presto prese a seguire i dittami dell’altra grande rivoluzione artistica che, alcuni anni dopo l’esperienza della Scuola di Posillipo, sconquassò l’ambiente artistico cittadino, e cioè quella che promulgava una più attenta adesione alla riproduzione del vero naturale, sotto la guida di Filippo Palizzi e dei suoi fratelli (attorno ai quali il nostro prese a gravitare), nonché di Domenico Morelli.
    L’esperienza risorgimentale e l’entusiasmo immediatamente post-unitario che si concretizzò da un punto di vista artistico nella prima Esposizione Nazionale di Firenze (1861) permise poi a Lojacono di entrare in contatto con i Toscani del Caffè Michelangelo, evolvendo la propria arte secondo lo stile e la tavolozza cari ai Macchiaioli (tanto da esser indicato in alcuni cataloghi del tempo come «Lojacono di Firenze»).Pochi anni dopo il nostro autore aggiornò ancora una volta (e forse definitivamente) la propria pittura secondi i canoni della Scuola di Resina, quel gruppo di artisti riunitisi a Portici per opporsi alla “monarchia” di Domenico Morelli e dei suoi seguaci e promuovere «un’arte indipendente puramente verista e realista, tendente alla manifestazione semplice del vero nelle sue svariate forme, senza orpelli e transazioni» (citando il manifesto redatto da Raffaele Belliazzi), proseguendo di fatto quanto già iniziato precedentemente da Filippo Palizzi.A quest’ultima fase, e quindi alla piena maturità artistica del suo autore, va ascritta l’opera proposta. La calura della veduta agreste siciliana, l’opprimente afa quasi percepibile effettivamente da chi osserva la tela, meritano all’artista l’appellativo che già i suoi contemporanei (pare un certo Romualdo Trigona, nobiluomo) gli affibbiarono di «ladro del sole», poiché nessuno si considerava tanto abile nel ritrarre paesaggi battuti dal cocente astro. Significativa è in proposito la presenza fra i soggetti del quadro ‘Una carovana di artisti nel deserto’ (opera di Paolo Vetri ed Ettore De Maria Bergler) di Lojacono, rappresentato proprio nell’atto di “reggere il sole”.
    Stima minima €23000
    Stima massima €28000
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