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RICERCA: palizzi
  • Mancini Antonio (Napoli 1852 -1930) Fanciulla che ride pastelli su carta, cm 76x55 firmato in alto a destra: A. Mancini a tergo cartiglio Galleria Pesaro, Milano Proveneinza: Coll. Du Chene de Vere ; Coll. privata, Milano coll. privata, Napoli Esposizioni: Milano 1927 Bibliografia: La Raccolta Du Chene de Vere Milano Gall. Pesaro 1927 n. ord. 87 tav. 21

    Principale guida di Antonio Mancini nel corso dei suoi studi presso il Real Istituto di Belle Arti di Napoli fu il grande Domenico Morelli, al quale il nostro rimase in qualche modo sempre legato. Al tempo la rivoluzione che andava scuotendo l’intero ambiente artistico partenopeo, appunto promulgata dal Morelli insieme a Filippo Palizzi, aveva le sue ripercussioni anche sulla formazione accademica delle nuove generazioni, sempre più indirizzate a guardare da un lato ai modelli propriamente antichi, copiando quanto veniva recuperato dagli scavi pompeiani del Fiorelli, e dall’altro lato alla grande tradizione secentista dell’Italia meridionale, che nel corpo docenti di Napoli trovava un entusiasta continuatore nella figura di Michele Cammarano.
    Si potrebbe dire pertanto che l’opera proposta si ricolleghi in qualche modo ad entrambe queste grandi eredità del passato del Mancini, indossando innanzitutto la modella raffigurata il tipico serto di foglie che può considerarsi quasi il leitmotiv di una certa produzione manciniana (quella degli autoritratti, ad esempio), ma soprattutto mostrando anche nel pastello una piena e matura conoscenza degli effetti chiaroscurali che vanno perfettamente a modellare il volto della protagonista, la quale emerge così (grazie anche alla candida camiciola) con forza dal fondo scuro dell’opera. L’oggetto che la donna stringe infine, probabilmente uno strumento musicale, va a costituire un collegamento con la più giovanile e forse celebre produzione dell’autore, quella in cui guappi e scugnizzi dalle strade partenopee venivano trasformati tramite l’arte in giovani bardi e saltimbanchi.
    Stima minima €4000
    Stima massima €7000
  • Gaeta Enrico (Castellamare di Stabia 1840 – 1887)
    Pescatori sulla spiaggia di Castellamare di Stabia
    olio su tela, cm 67 x 98
    firmato in basso a destra: E. Gaeta
    a tergo etichetta che riporta il numero 75.


    Balzato alle cronache in quanto vittima di un omicidio passionale a nemmeno cinquanta anni compiuti, Enrico Gaeta legò indissolubilmente la propria arte (di cui forse ci rimangono sempre troppo pochi esempi) alla natia Castellammare di Stabia ed ai suoi dintorni, alle aree cioè ove già da alcuni decenni prima della sua nascita (nel 1840) la nobiltà napoletana era solita costruire le proprie ville, complici anche le proprietà benefiche delle fonti locali. L’amore per la propria terra non poté che condurre il nostro verso la pittura di paesaggio, un genere al tempo comunque non felicissimo poiché considerato minore negli ambienti accademici (ma comunque di buon successo sul mercato).
    Prima fonte di ispirazione per Gaeta, come del resto per tanti altri, fu la Scuola di Posillipo, che indubbiamente per prima avviò il rinnovamento della pittura di paesaggio in ambiente partenopeo nel corso dell’Ottocento, col suo caposcuola Giacinto Gigante: proprio guardando a quest’ultimo infatti il nostro si cimentò nell’acquerello, nonché si appassionò alle rovine di Pompei, allora oggetto di nuovi scavi.
    Alla lezione posillipista tuttavia Gaeta presto preferì il radicale rinnovamento che a Napoli verso la metà del diciannovesimo secolo andarono portando in pittura Domenico Morelli e Filippo Palizzi (il primo del resto era già insegnante della partenopea Accademia di Belle Arti negli anni in cui il nostro la frequentò). La vera svolta nell’arte di Gaeta avvenne infine solo con l’incontro col gruppo dei porticesi (ovvero la Scuola di Resina) ed in particolare Marco de Gregorio, attraverso il quale il nostro poté inoltre entrare in contatto con i macchiaioli toscani, l’influsso dei quali (Lega, Signorini, Cecioni, Fattori) su Gaeta già percepì anni fa Raffaello Causa.
    L’opera proposta in asta, il cui soggetto si ripete in vari dipinti dell’autore (“Marina di Castellammare” e “Montagne di Castellammare”, ma anche certi scorci di Pozzano e Quisisana nelle opere di proprietà della Banca Stabiese), presenta vari aspetti in comune con la produzione di De Gregorio, fra i quali non va ovviamente sottovalutata la tavolozza; anzi, proprio come talvolta per il porticese si notò a proposito di Gaeta: «la caratteristica principale dell’arte del paesista stabiese è rappresentata dai toni verdi: verdi cupi e teneri, verdi dorati e vivi, che squillano al sole, rallegrano la boscaglia, riposano all’ombra, si spengono e si rianimano, fra una macchia ed una radura, su cui piomba la luce luminosa del sole di mezzodì. I boschi di Quisisana, le campagne del Sarno, le colline di Pozzano, di Salara, Monte Coppola, Faito, i monti Lattari, selve e verzieri, rivivono nell’opera sua, componendo fra sbattimenti di ombre e inondazioni di luce, una grande sinfonia di verde».
    Stima minima €10000
    Stima massima €20000
  • Monografie Il lotto comprende: a) MONOGRAFIE Angelo Ricciardi, I FRATELLI PALIZZI, Palazzo d'Avalos, Vasto 1989 b) MONOGRAFIE Angelo Ricciardi, Filippo Palizzi e il suo tempo, Palazzo d'Avalos, Vasto 1988 c) OPERE GENERALI PESCARA.ARTE E CITTA' FRA 800 E 900, Carsa Edizioni
    Stima minima €125
    Stima massima €200
  • Palizzi Filippo (Vasto, CH 1818 - Napoli 1899)
    Fratelli di latte
    olio su tela, cm 65x88
    firmato e datato in basso a destra: Filip. Palizzi 1879
    a tergo cartiglio Galleria Dedalo, Milano

    Provenienza: Coll. Rossi, Milano; coll. privata, Napoli

    Esposizioni: Milano, 1933-1934

    Bibliografia: Alcune opere scelte di FilippoPalizzi, Galleria Dedalo Milano, Ed. Rizzoli & C. MI 1933, Tav III, n. Cat. 31 ; A. Schettini, La Pittura napoletana dell'Ottocento E.D.A.R.T. Napoli 1967 vol I pag. 159 n° cat. 87; Catalogo Bolaffi della Pittura italiana dell'Ottocento n°4, G. Bolaffi Editore TO 1972, pag. 310 in b/n

    Di Filippo Palizzi sono generalmente ricordate nell’immaginario comune le suggestive rappresentazioni di grandi ambienti naturali aperti, tipicamente popolati più da figure animali che umane: questi tipi di raffigurazioni in effetti meglio esemplificano la grande rivoluzione di cui il Palizzi si fece promotore (insieme al Morelli, sebbene seguendo filoni non sempre vicini fra loro) nel mondo artistico dell’Italia meridionale (a partire da Napoli) nel corso della seconda metà del diciannovesimo secolo. Non mancarono tuttavia nella produzione dell’autore ritratti (ed autoritratti) di grande profondità psicologica, così come alcuni (più rari) esempi di pittura storica.
    L’opera proposta in effetti riassume felicemente almeno i principali spunti tematici che caratterizzarono la produzione palizziana. La data inscritta dallo stesso autore riporta del resto al periodo della sua piena maturità artistica, quando erano già compiuti i molti viaggi in Italia (a Firenze Filippo fu celebrato dai macchiaioli come loro padre spirituale) e all’estero (Francia, Olanda, Belgio, Austria nonché il lungo tragitto verso Est al seguito del principe Maronsi)e quando alla conclamata fama del Palizzi (giunta sia in Russia che nelle Americhe) già andavano aggiungendosi i molteplici incarichi istituzionali. L’occasionale richiesta del committente (fra i tanti, pure illustri, che si rivolsero all’artista) diviene allora ricettacolo delle abilità e delle tecniche maturate nel corso di una carriera giunta al proprio apice, e vi vengono coniugate suggestioni certo non fortuite (cioè manifestatesi agli occhi dell’autore per puro caso, come spesso accadeva) ma non per questo meno vere; a tal proposito vanno segnalate due opere oggi all’Accademia di Belle Arti di Napoli (tramite donazione dello stesso Filippo) che furono con ogni evidenza coeve o comunque cronologicamente poco distanti da quella in esame, se con quest’ultima condividono una il soggetto della panchina (con tutti gli accessori su di essa posati), l’altra l’abitazione neoclassica sullo sfondo e parte della villa che la circondava.
    Tanto l’ambientazione, comunque, che i tre animali rappresentati (soggetti che per primo il Palizzi elevò ad una dignità artistica pari a quella delle figure umane) con il tenero e palpitante infante al centro sono espressioni della singolare concezione di “macchia” che l’autore sviluppò come obiettivo della propria poetica, poiché «quello che bisogna cercare ora nella pittura moderna sono le finezze e la totalità», da intendersi come una impressione di insieme che non rinunciasse ad alcune sottigliezze percettive (anzi proprio completandosi con esse) specialmente nella resa dei molteplici effetti luministici.
    Stima minima €18000
    Stima massima €34000
  • Volpe Vincenzo (Grottaminarda, AV 1855 - Napoli 1929)
    Scolaretti all’oratorio
    olio su tela, cm 65,5×90,5
    firmato, datato e iscritto in basso a destra: V Volpe 1889 Napoli

    Provenienza: Aguttes S.A.S, Neuilly-sur-Seine, asta 12/03/2019, lotto 353/bis; Coll. privata, Napoli

    Bibliografia: Aguttes S.A.S, Catalogo asta 12/03/2019, Mobilier & Objets d'Art, lotto n° 353/bis, Neuilly-sur-Seine 2019, p.97.


    Iscrittosi al Real Istituto di Belle Arti di Napoli nel 1871, Vincenzo Volpe, in breve tempo passò dalla classe dei frammenti e di statua a quella di pittura, entrando di diritto nella cerchia degli eredi del morellismo quali Caprile, Costantini e Di Chirico. Volpe esordì alla Società Promotrice a Napoli del 1876 con Un carnevale in famiglia, mentre alla Promotrice al 1880, presentò Le monache del giovedì santo; da quel momento, realizzò una serie di tele di genere in una atmosfera intima, che raccontavano momenti di catechesi condotti da anziani preti o vecchie suore a piccoli fanciulli. Tra tutte basti ricordare la Dottrina cristiana, esposta alla Promotrice del 1887. La sua pittura non si distaccò dalla tradizione scolastica della scuola napoletana del secondo Ottocento, da cui derivò la sua struttura, ma fu arricchita di nuovi propositi, sviluppando un proprio “carattere” originale, ancorché coerente con gli insegnamenti di Domenico Morelli e di Filippo Palizzi; maestro, il primo, nel campo del disegno e della composizione e il secondo, nell’osservazione naturalistica unita alla concretezza pittorica. Infatti, il suo spirito di osservazione, arricchito da un sentimento più caldo e un temperamento modesto, gli suggerivano di eliminare dalle sue migliori esecuzioni l’enfasi colorista della maniera morelliana, così come l’eccesso calligrafico palizziano. Come ebbe a dire Enrico Somaré: L’arte di Vincenzo Volpe ebbe per suo metro la misura, per suo criterio l’ordine, per suo strumento il mestiere e lo studio. A partire dagli anni ’90 Volpe pose il suo studio in una cappella sconsacrata, nel vecchio convento delle monache del Sacramento, in via Salvator Rosa. Da quel luogo presero corpo, se non le pitture sacre dei decenni successivi, certamente alcuni “interni” e “figure” intrise di quel misticismo in cui lo spirito contemplativo del pittore incominciava a declinare sempre più fortemente. Questa ampia premessa non fa che confermarsi in questa importante tela: Scolaretti all’oratorio, dove il pittore con il suo fare sapiente rifugge dai contrasti chiassosi così come dai colori troppo vistosi. L’accordo gentile dei mezzi toni rende, nella simpatica scenetta, il sentimento più intimo e familiare delle vicende quotidiane. Il tutto ammantato da luci delicate e tinte tenui che rimandano ad antiche abitudini rurali e frequentazioni conventuali. Non può sfuggire, sull’identificazione dell’ambiente, l’ampia panca da chiesa e il turibolo da processione in alto a sinistra. Anche la tipica sedia “Savonarola”, la cui struttura con due serie di listelli paralleli che si intrecciano, fu più volte ripetuta dal Volpe, come nella tela Un dono al convento, mentre la fisionomia della nostra vecchina è identica a quella impressa nella tela: Suor Colomba (Tranfaglia 1928, ill. b/n). I riferimenti e i personaggi sono chiari, così come il titolo dell’opera. Ci aiuta in questa ricostruzione certamente una piccola ma parziale replica, proveniente dallo studio del pittore, come riferito da Tranfaglia nella monografia dedicata all’artista, che fu dapprima all’esposizione d’Arte di Bologna del 1925 (con il titolo Scolaretto) e poi all’Esposizione postuma (con il titolo Scolaretto di campagna) organizzata dalla Galleria dell’Esame di Milano nel 1942, a tredici anni dalla morte dell’artista di Grottaminarda. Il predetto quadretto, però, si limitava a riprodurre solo il piccolo scolaro seduto sullo sgabello a sinistra della scena e grazie a questa nostra opera, oggi, la sua collocazione rientra in una più ampia scena che Volpe volle fermare nella sua più definitiva descrizione.
    Riferimenti bibliografici dell'opera "Scolaretto " : Prima Esposizione d’Arte a Bologna, Catalogo, 1925, p.17 n.129 ed ill. p.39; Tranfaglia A., Vincenzo Volpe e la sua arte sacra e Montevergine. Avellino 1928, tav b/n p.24 e p.86; Galleria dell’Esame, Mostra di Vincenzo Volpe, Milano 1942,tav. 24;
    Stima minima €8000
    Stima massima €12000
  • Costantini Giuseppe (Nola, NA 1844 - San Paolo Belsito, NA 1894)
    Uno scherzo al nonno
    olio su tavola, cm 34x25
    firmato e datato in basso a destra: Costantini 1884

    Provenienza: Coll. De Luzio; coll. privata, Napoli

    Bibliografia: F.C.Greco - M.Picone - I.Valente, La pittura napoletana dell'Ottocento, T.PirontiEditore 1993, n° 98 - ill. a colori
    Stima minima €7000
    Stima massima €13000
  • Dalbono Edoardo (Napoli 1841 - 1915)
    Scuola di ballo
    olio su tela, cm 51,5x38,5
    firmato e iscritto in basso a sinistra: E. Dalbono in Napoli

    Provenienza: Sotheby's, Monaco

    Esposizioni: Monaco, 1990

    Bibliografia: Cat. Sotheby's, Monaco 1990, pag. 83; R. Caputo, La Pittura Napoletana del II Ottocento, Franco Di Mauro Editore,Napoli 2017, p. 187

    Se è vero che il soggetto dell’opera risulta alquanto raro nella produzione del Dalbono, di cui oggi conosciamo più numerosi gli esempi legati alla poetica palizziana (Edoardo fu allievo di Nicola Palizzi, del resto), mai privi tuttavia di una certa temperie sognante peculiare del proprio autore, non si può affatto affermare che simili quadri di genere non appartenessero al Dalbono almeno quanto i suoi paesaggi ripresi dal vero. È noto infatti che già in giovane età Edoardo si dilettasse in rappresentazioni di scenette folcloristiche su ispirazione delle passioni e degli scritti del padre Carlo Tito Dalbono (autore fra l’altro proprio di un’opera sulle tradizioni popolari), poeta estemporaneo; all’educazione infantile va anche ricondotta la passione del Dalbono per la musica, che in un modo o nell’altro spesso influenzò la sua produzione.
    Il più celebre esempio dalboniano di tarantella fu certo l’opera eseguita su committenza del collezionista svizzero Fierz (insieme a varie altre tele ed acquarelli tutti di soggetto popolare, come si evince dalle testimonianze del Giannelli), il quale finì poi per accontentarsi solo di una copia dato il grande successo del dipinto alle Promotrici del 1864 e del 1866. Il filone di costume, intrecciandosi spesso con quello musicale, pure incontrò largo successo per almeno tutto il decennio successivo, se vi rimandano vari titoli di opere eseguite nel periodo di esclusiva per il celeberrimo mercante d’arte Goupil (fra queste “Il voto alla Madonna del Carmine” diede avvio al fortunato tema delle canzoni sul mare), che tenne sotto contratto Dalbono per ben nove anni.
    D’altro canto l’iscrizione sulla tela colloca senza alcuna possibilità di dubbio la sua esecuzione nel territorio partenopeo. Su di una loggia che dà sul mare dunque la più piccola protagonista del dipinto muove i suoi primi passi di danza al ritmo delle percussioni suonate dalle altre due figura femminili, materne a loro modo nelle proprie forme floride e morbide. I giochi chiaroscurali che la luce ricrea penetrando tra le frasche dell’agrumeto che circonda lo spazio della rappresentazione risentono evidentemente non solo degli insegnamenti palizziani nonché dell’esperienza nella Scuola di Resina, ma anche della coeva pittura francese che il Dalbono ebbe certamente modo di conoscere anche grazie ad un suo soggiorno parigino. Osservando gli esiti della ricerca luministica dell’autore, ad ogni modo, appare ben meritato il titolo di “pittore della luce” che una certa critica gli ha attribuito nel corso del tempo.
    Stima minima €16000
    Stima massima €24000
  • De Gregorio Marco (Resina, NA 1829 - 1876)
    La passeggiata del prete
    olio su tavola, cm 23x33,5
    firmato e datato in basso a sinistra: M. De Gregorio 1875
    a tergo iscritto: De Gregorio Promotrice 1875 Napoli

    Nonostante il ruolo centrale occupato nella significativa (ma breve) esperienza della Scuola di Resina, di cui appunto fu fondatore insieme a Federico Rossano intorno agli anni Sessanta del diciannovesimo secolo, di Marco De Gregorio resta una produzione non vasta, dispersa per lo più fra le collezioni private. Quel che conosciamo basta tuttavia a delineare la personalità dell’artista e la sua abilità narrativa, nonché ad esemplificare gli ideali cari ai porticesi, che come è noto vollero affrancarsi con forza dall’accademismo che a parer loro ancora opprimeva la scena artistica napoletana e dunque meridionale a causa della figura accentratrice di Domenico Morelli, colpevole di aver piegato anche le novelle poetiche del vero (quelle cui più rigidamente aderiva invece Filippo Palizzi) ad una pittura non scevra di fantasia, cosicché l’osservazione del reale poteva essere adoperata per ritrarre singoli elementi componibili fra loro in una scena essenzialmente d’invenzione. In questa loro strenua “ribellione” i porticesi dichiarano fin dal proprio manifesto (edito per mano di Raffaele Belliazzi) l’interesse per le “cose piccole” e cioè comunemente ritenute di scarso interesse per la grande arte del tempo, fossero esse scenette di vita quotidiana o scorci paesaggistici inusuali, per lo più aspri ed inospitali, di cui i membri della Scuola amavano studiare le variazioni cromatiche e luministiche al passare delle ore del giorno. L’opera proposta esemplifica evidentemente il succitato interesse dei porticesi, rappresentando un episodio assolutamente comune di vita nei centri più periferici della Campania. La figura del prelato di campagna torna in effetti più volte nella produzione dei membri della Scuola, e vanta esempi più o meno noti almeno già fra le opere di Filippo Palizzi. La peculiarità dell’ombrello rosso, con cui l’uomo di chiesa pare essere indissolubilmente rappresentato, risalirebbe ad un aneddoto occasionalmente riportato in forma scritta, secondo cui in un luogo non precisato, in periodo di forte, quasi fatale siccità, il parroco locale organizzò una veglia di preghiera; fra i molti oggetti di culto portati dai fedeli, ricchi ma convenzionali, l’uomo non poté fare a meno di notare una bimba che, unica, aveva con sé un ombrellino purpureo, esempio della sua spontanea ma ferma convinzione nella possibilità del miracolo: l’accessorio allora sarebbe assurto a simbolo di sincera fede in Dio.
    Stima minima €6000
    Stima massima €9000
  • Palizzi Nicola (Vasto - CH 1820 - Napoli 1870) Paesaggio lacustre olio su cartone, cm 16x23,5 firmato in basso a sinistra: Palizzi
    Stima minima €1500
    Stima massima €2500
  • Palizzi Filippo (Vasto, CH 1818 - Napoli 1899) Scavi di Pompei olio su tela, cm 64x17,5 firmato in basso a sinistra: Fil. Palizzi

    Insieme a Domenico Morelli Filippo Palizzi fu protagonista indubbio della radicale riforma che scosse il panorama artistico partenopeo, favorendo rispetto al più tradizionale dipinto di composizione una rappresentazione artistica che fosse più aderente possibile al vero naturale. All’interno di questo nuovo programma culturale si voleva rivoluzionare anche l’intero percorso di studi accademici degli artisti (cosa in cui di fatto il Palizzi riuscì solo in parte, così che non a lungo mantenne la direzione dell’Istituto di Belle Arti partenopeo), nel corso del quale rinnovato ed ampio spazio veniva fornito alla copia dall’antico (ovviamente ripreso con rigore dal vero e non più nelle sue forme ideali di bellezza) complici i nuovi ritrovamenti che gli scavi postunitari del Fiorelli andavano portando alla luce soprattutto presso Pompei.
    Nemmeno lo stesso Palizzi rimase insensibile al rafforzato fascino per le antichità sviluppatosi all’epoca, e perciò oggi possiamo godere di uno degli assoluti capolavori dell’artista, quella “Giovinetta sugli scavi” che, in più versioni nonché in varie copie (fra le quali una per mano del fratello minore dell’autore, Francesco Paolo), sta sempre ferma ad interrogarsi pensierosa sugli usi ed i costumi di un popolo tanto più antico di lei, venendo quasi a rappresentare un ponte ideale fra l’arte ottocentesca e quella romana.
    Il piccolo ma prezioso dipinto in asta sembra quasi adottare il punto di vista della succitata fanciulla (la modella Filomena), osservando gli scavi dall’alto in un taglio compositivo ardito e moderno. Al minuzioso realismo palizziano s’è tuttavia qui sostituita una pittura di macchia assai più rapida, che tuttavia non rinuncia a delineare le decorazioni parietali pompeiane, che tanto evidentemente dovettero incantare l’autore.
    Stima minima €2500
    Stima massima €4500
  • Il lotto comprende: a) MONOGRAFIE SALVATORE DI GIACOMO, DOMENICO MORELLI. ROMA-TORINO, ROUX & VIARENGO, 1905 b) ESPOSIZIONI MOSTRA DI FILIPPO PALIZZI E DOMENICO MORELLI. CATALOGO CON SCRITTI DI LUIGI AUTIELLO, FELICE DE FILIPPIS, CORRADOMALTESE, PAOLO RICCI, ALFREDO SCHETTINI. NAPOLI,1961.
    Stima minima €125
    Stima massima €200
  • Cammarano Michele (Napoli 1835 - 1920)
    Passeggiata nel bosco
    olio su tela, cm 69x78,5
    firmato e iscritto in basso a destra: Mich. Cammarano ...

    Provenienza: Coll. A. Portolano,Milano

    Esposizioni: Milano 1994

    Bibliografia: Mostra di trenta Opere selezionate dell'800 Italiano - Circolo della Stampa Milano 1994 Nuova Bianchi d'Espinosa , pag. 22

    Michele Cammarano dedicò notoriamente la maggior parte della propria arte alla pittura di Storia, traendo ispirazione dai violenti tumulti che straziarono l’Italia del suo tempo e non senza un certo afflato verista, di denuncia, che potrebbe oggi farcelo avvicinare alla poetica letteraria del Verga.
    Dunque la sua sensibilità estetica non si imperniò ancora – si badi – sulla lunga ed ormai indebolita tradizione della pittura di composizione, ma anzi proprio in aperto contrasto con l’accademismo del tempo (come tanti suoi coevi colleghi) egli aderì alla nuova poetica del vero che andava affermandosi allora fra i membri più giovani ed aggiornati della Scuola napoletana, preferendo in particolare il naturalismo dei fratelli Palizzi. Di questi ultimi artisti l’opera proposta del Cammarano mostra ancor più l’influenza, se i temi storici sono momentaneamente abbandonati in favore di una rappresentazione en plein air, concretizzata in minuziose e fini macchie di colore.
    Stima minima €15000
    Stima massima €25000
  • Il lotto comprende: a) MONOGRAFIE Angelo Ricciardi, I FRATELLI PALIZZI, Palazzo d'Avalos, Vasto 1989 b) MONOGRAFIE Angelo Ricciardi, Filippo Palizzi e il suo tempo, Palazzo d'Avalos, Vasto 1988 c) OPERE GENERALI PESCARA. ARTE E CITTA' FRA800 E 900, Carsa Edizioni d) MONOGRAFIE: Franco Di Tizio, FRANCESCO PAOLO MICHETTI NEL CINQUANTENARIO DELLA MORTE, Pescara 1980
    Stima minima €125
    Stima massima €200
  • Cammarano Michele (Napoli 1835 - 1920)
    Suonatori ambulanti
    olio su tela, cm 110x71,5
    firmato in basso a sinistra: Mic. Cammarano


    Provenienza: Raccolta E. P. Milano; Coll. Apa Torre del Greco; Gall. Giosi, Napoli; Farsetti 2000; Coll. privata, Firenze; Coll. privata, Napoli


    Esposizioni: Milano, Gall. Guglielmi 23-26 Nov1939; Napoli Gall. Giosi 22-28 ottobre 1988

    Bibliografia: Opere pittoriche dell'Ottocento nella Raccolta E.P., Gall. Guglielmi, Milano 1939, n. ord. 229 Cat. Galleria Giosi Napoli 1988 n° cat 32 (in copertina )




    Figlio (e nipote) d’arte, Michele Cammarano crebbe dunque in un ambiente favorevole alla sua vocazione pittorica e si iscrisse pertanto appena possibile al Real Istituto di Belle Arti di Napoli, frequentando con merito e lodi gli insegnamenti dello Smargiassi e del Mancinelli. Insofferente tuttavia (come tanti suoi coetanei) nei confronti dell’accademismo distampo ancora romantico, Michele preferì formarsi principalmente sul naturalismo dei fratelli Palizzi, sfruttando però l’adesione al vero come mezzo di rappresentazione dei tumultuosi eventi storici che gli si andavano verificando attorno: arruolatosi nella guardia nazionale, all’epica risorgimentale ed alle prime grandi imprese del neonato Regno d’Italia furono dedicate importanti tele quali “Carica dei Bersaglieri a Porta Pia” del 1971 (non scevra da influenze di Géricault, che Cammarano vide a Parigi, l’opera è oggi al Museo di Capodimonte in Napoli) e “Il 24 Giugno a San Martino” del 1883 (Roma, GNAM), nonché il suo ultimo capolavoro, “Battaglia di Dogali”(1896, anch’essa a Roma).
    Se Maltese (uno dei protagonisti della rivalutazione critica del Cammarano nel corso del Novecento) ha giustamente sottolineato quanto all’artista interessassero in definitiva, più del preciso accadimento storico, la sua immediata violenta e l’intrinseca miseria dei suoi protagonisti, va detto che in effetti a queste tensioni drammatiche Michele già dedicò alcune opere antecedenti a quelle più propriamente “storiche”, con intenzioni del tutto assimilabili al Verismo di Verga in letteratura: ecco allora “Terremoto di Torre del Greco” e “Ozio e lavoro” (uno del 1861, oggi al Museo di San Martino, l’altro del 1863, oggi al Museo di Capodimonte), nonché “Incoraggiamento al vizio” (che scosse la Biennale veneziana del 1869, oggi in collezione privata) e “Rissa a Trastevere” (1887, conservato nelle Gallerie dell’Accademia di Belle Arti napoletana).
    A questa temperie va ricondotta l’opera proposta, raffigurante in sostanza l’essenza stessa della miseria che trascende finanche i propri rappresentanti, due suonatori ambulanti in abiti assai sdruciti; finanche la strada sterrata che i due personaggi calpestano, nonché allo loro spalle la cadente struttura lignea e più indietro ancora il cielo cupo, contribuiscono tutti a trasmettere il malessere esistenziale della scena. Straordinaria, va detto, è la bambina, che scura in volto avanza la propria mano verso l’osservatore per chiedergli aiuto: sembra quasi anticipare di circa un secolo la memorabile sequenza cinematografica del neorealista “Umberto D.”, prodotto del genio desichiano. La tecnica è tipica del Cammarano, consistendo in densi impasti di colore (dati da grossi colpi di brossa o di paletta) su cui la luce crea giochi peculiari ed altamente intensi ed espressivi.
    Stima minima €16000
    Stima massima €25000
  • Gemito Vincenzo (Napoli 1852 - 1929)
    Autoritratto
    tempera su carta, cm 52x40
    firmato e datato in basso a destra: V. Gemito 1916

    a tergo iscritto Galleria Bollardi Milano


    Provenienza: Galleria Bollardi Milano; Coll. T. Giosi Napoli; Coll. E. Catalano Napoli


    Bibliografia: A. Schettini, La pittura napoletana dell’Ottocento, Vol. II, E.D.A.R.T., Napoli 1967, pag. 271; N. D’Antonio, Pittura e Costume a Napoli fra Otto e Novecento. Incontri con Tullio Giosi, Ed. Fausto Fiorentino, Napoli 1995, pag. 52

    Vincenzo Gemito è stato a lungo l’unico artista napoletano del secolo diciannovesimo ed esser ricordato in pratica dalla storiografia di settore (fino alla recente riscoperta di tanti maestri suoi contemporanei), complici i numerosi riconoscimenti ottenuti in vita dentro e fuori la penisola italica nonché il favore riservatogli durante l’età fascista (addirittura dallo stesso Mussolini).
    Il solo udire il cognome di questo artista subito riporta alla mente la sua vasta e celeberrima produzione scultorea, tipicamente ricreata “per porre” di materiali semplici (soprattutto gesso e terracotta, e solo più tardi bronzo) ma altamente espressivi, nonché sempre all’insegna di una stretta aderenza al dato reale, così come Stanislao Lista (uno dei suoi primi maestri, insieme al Caggiano) andava propugnando in scultura allo stesso modo di Filippo Palizzi in pittura.
    Il genio di Gemito non sta tuttavia solo in opere quali il “Giocatore”, il “Pescatorello”, ’”Acquaiolo” (e generalmente tutti i numerosi ritratti di guappetielli locali) o il “Filosofo” (raffigurante il suo amato patrigno Masto Ciccio), ma anche (e anzi prima ancora, trattandosi spesso di studi preparatori) nella ricca produzione grafica, già lodata in passato da tanti maestri indiscussi: Alberto Savinio molto ne sottolineò il valore artistico, e suo fratello Giorgio De Chirico arrivò perfino a paragonare Gemito a Dürer! I disegni di Vincenzo cominciarono ovviamente col suo apprendistato artistico, come ovvi progetti cioè di successive creazioni scultoree, ma si fecero poi particolarmente numerosi e, soprattutto, fini a se stessi ed assolutamente indipendenti dall’arte favorita del proprio autore negli ultimi decenni della vita di questi, ovvero nel ventennio (circa) della follia, allorché sconvolgenti eventi nella biografia di Gemito uniti a delusioni in ambito lavorativo (specialmente legate, quest’ultime, alla difficile realizzazione delle commissioni reali per la statua del Carlo V per il Palazzo Reale di Napoli e per un “Trionfo da tavola” in argento da custodirsi presso la Reggia di Capodimonte) lo costrinsero finanche al ricovero; la particolarmente ricca produzione disegnativa viene insomma a spiegarsi attraverso la liberazione dalle ansie causate dai vincoli progettuali delle pressanti commissioni ricevute.
    Al termine del difficile periodo appena descritto va a collocarsi l’opera proposta, che nello sguardo attento ma ancora allucinato dell’artista autoritrattosi tradisce ancora le vestigia della crisi a malapena superata. Come felicemente intuirono sia il Somarè che il Siviero la caratteristica peculiare e più potente della grafica di Gemito sta nella sua concezione del disegno in profondità («simile anche in questo agli antichi») e non in superficie (come erano soliti invece fare i suoi contemporanei), restituendo all’osservatore una sensazione di spazialità tanto forte «da suscitare l’illusione che l’aria vi circoli».
    Stima minima €8000
    Stima massima €13000
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