Il dipinto fu esposto alla
XXXIII Mostra della Società Promotrice di Belle Arti di Napoli con il titolo
Pro Patria ad aerarium, il cui spunto è fornito dall’Ab urbe
condita di Tito Livio.Con lo stesso titolo
quest’opera prese parte anche alla Jahresausstellung di Monaco di Baviera nello
stesso anno, come indicato nel cartiglio applicato sul verso della tela, dove
compare per mano dell’autore, il riferimento al libro VI e al cap. XXVIII
dell’opera liviana.Il dipinto, però, può
risalire almeno a un paio d’anni prima, quando venne esposto alla Mostra
Italiana di Londra del 1904; in quell’occasione le fonti ci restituiscono il
nome dell’antico proprietario, tale Francesco Baranello.Salernitano d’origine,
Gaetano d’Agostino (1837 - 1914) fu autore di opere riferite principalmente alla
storia romana antica, eseguite nel segno della riforma morelliana, e di
raffinati cicli decorativi per dimore private ed edifici pubblici. Tra le prime
ricordiamo altre notevoli tele che, insieme con quella qui presentata,
costituiscono un nucleo di veri capolavori: Nos numerus sumus et fruges
consumere nati, ispirata a un’epistola di Orazio, esposta alla Mostra
Nazionale di Milano del 1872; I saltimbanchi a Pompei, presentata
all’Esposizione Nazionale di Napoli del 1877 (oggi al Municipio di Capua) tratta
da Terenzio; La vita romana sotto Claudio, inviata alla Mostra Generale
di Torino del 1884, il cui tema era desunto da una satira di
Giovenale.La grande tela di Pro
Patria ad aerarium, inquadrata da una cornice monumentale, rientra in quel
preciso filone che, a partire dagli anni Settanta dell’Ottocento, ebbe un grande
seguito a Napoli come nel resto d’Italia, raggiungendo un picco negli anni
Ottanta. Fra i meridionali con i quali l’opera di D’Agostino trova collegamenti
stilistici e tematici ricordiamo il napoletano Camillo Miola e il siciliano
Giuseppe Sciuti, anche nell’inquadratura orizzontale e nell’andamento narrativo
della scena, mentre, fra gli altri artisti della penisola, è forse con il
modenese Giovanni Muzzioli che possono essere rintracciate le maggiori
concordanze.Il tema per così dire
“archeologico moderno” trovò una grande fortuna a Napoli all’insegna della
riforma della pittura di storia cui Domenico Morelli diede vita con le opere dei
primissimi anni Sessanta (si ricorda Il bagno pompeiano del 1861). A
questo immaginario neopompeiano diede forte impulso anche l’opera del pittore
olandese Lawrence Alma-Tadema, che, durante i soggiorni napoletani, ebbe modo di
influenzare gli artisti locali.“Rappresentare cose non
viste ma immaginate e vere”, come dettava Morelli, fu la conditio sine qua
non alla base delle scene storiche o d’invenzione, che, dunque, nell’epoca
del verismo, dovevano rispondere a criteri di assoluta verità storica. A questi
criteri si rifà la tela di D’Agostino, condotta secondo la rappresentazione
scenica, senza tralasciare la cura dei dettagli, l’indovinata espressione dei
volti, la posa dei personaggi, compreso lo schieramento dei togati che funge da
sfondo. Le teste rappresentate da sotto in su delle figure a destra ricordano i
vari studi di giovani e di vecchi eseguiti a olio dall’artista come esercizio
formale.
Isabella
Valente